Le memorie di Toshiba e i motivi dell’interesse di Foxconn, Apple, Dell & Co.

Che cosa accomuna Foxconn, Apple, Dell e altre aziende tra le principali dell’high tech Usa nella rincorsa all’unità Memorie di Toshiba, in vendita per coprire i buchi del nucleare?

Ammettiamolo, gli argomenti come componenti e  memorie appaiono un po’ ostici ai commentatori. I media italiani non appaiono molto propensi a trattare un argomento che vale decine e decine di miliardi di dollari  che si parli di unità a disco, di memorie Dram, figuriamoci quelle flash. In queste settimane il tema che tiene banco è la vendita “forzata” della divisione memorie a semiconduttori di Toshiba, pressata ai “buchi” generati dalla sua controllata elettronucleare (l’americana Westinghouse), una vicenda in cui si giocano anche preoccupazioni politiche lungo l’asse Giappone – Cina (più Taiwan)  – Usa. Benché gli stessi nomi circolino da un paio di mesi, le ultime ore hanno fatto da cassa di risonanza alle dichiarazioni del Ceo e fondatore di Foxconn, Terry Gou, che affiancano al nome del principale contract manufacturer mondiale, che ha più di 1 milione di dipendenti nel mondo. Nomi  che rappresentano la crema dell’hi-tech Usa: Apple e Dell in primo luogo, e poi anche Microsoft sullo sfondo e altri ancora, senza contare le controfferte di altri giganti come Western Digital o Broadcom. C’è una logica in tutto questo e in quello che potrebbe qualificarsi come un rimescolamento della filiera del valore? Ma perché, proprio Apple e Dell?

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Incominciamo col dire che le memorie finiscono oggi soprattutto negli smartphone e nelle unità a disco allo stato solido, SSD e loro varianti. Foxconn, naturalmente, produce per conto terzi gli smartphone, a cominciare dall’iPhone (e l’iPad) di Apple, e produce computer, che notoriamente hanno bisogno di unità di archiviazione. Un anno fa erano quasi una rarità, ma oggi moltissimi dei notebook, compresi 2 in 1 (quelli con tastiera separabile) e “convertibili” (quelli con tastiera che ruota a 360 gradi) usano non più i tradizionali dischi rotanti, ma unità allo stato solido: SSD appunto. Non basta: da almeno un paio d’anni, il business delle memorie flash ha superato quello delle tradizionali memorie Dram, che naturalmente, a causa della loro volatilità, hanno altri tipi di impieghi, pur condividendo una base a semiconduttore.

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Per le sue memorie, Toshiba fino allo scorso anno ha chiaramente privilegiato un utente: Apple. La fame di memoria negli smartphone è illimitata. L’ingresso lo scorso anno dell’iPhone 7, per esempio, ha rappresentato il passaggio dei “tagli” di memoria da 16 a 128 GB a quelli da 32 a 256 Gigabyte e la memoria fa parte dei costi maggiori (per la cronaca: secondo IHS, produrre un iPhone 7 costa 219 dollari di materiali e 5 (cinque) di assemblaggio, presso le linee della stessa Foxconn. Il problema è che Toshiba, in un’ottica di comprensibile e prudenziale diversificazione, ha deciso sul finire dello scorso anno di allentare un po’ il pedale dalle forniture ad Apple, che poi finiscono materialmente a Foxconn. Apple e Foxconn sono quindi doppiamente interessate ad avere il controllo (e la priorità) nelle forniture, in un mercato che è peraltro sempre sotto tensione o, come dicono gli anglosassoni, “in undersupply”.

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A sua volta Dell ha più di un motivo per avere una presenza nel business delle memorie. Uno è naturalmente quello dei pc, che in misura crescente utilizzano nella fascia bassa (quella dei prodotti low-cost) memorie eMMC, tipicamente da 32 e (sempre più) 64 GB e per il resto memorie SSD (tipicamente tra i 128 e i 512 GB). Il fatto che Foxconn ammetta “discussioni” anche con Microsoft, sempre più impegnata in prodotti come laptop e console è un’ulteriore conferma. Un altro motivo, tuttavia, anche quello dei sistemi di storage per il mondo enterprise.

Non va trascurato infatti che proprio Dell un anno fa è stata protagonista di una delle più costose acquisizioni tecnologie, quella da circa 60 miliardi di dollari per portare a casa EMC, la “regina” dello Storage, ovvero dei grandi sistemi di archiviazione dati. EMC controlla, secondo i criteri di misurazione, dal 25 al 30% di un mercato che da qualche tempo ha perso lo slancio di un tempo, che negli ultimi trimestri è stato sostanzialmente “piatto” se non in lieve discesa e in cui c’è tuttavia un segmento ancora dinamico ed espansivo: quello delle unità di memoria flash. Fu la stessa EMC, una decina d’anni fa a introdurre le prime unità a disco di classe enterprise con memorie flash. Era il gennaio del 2008 quando nell’ambito della sua serie Symmetrix DMX 4, la casa di Hopkinton, vicino a Boston, introduceva unità da 73 e da 146 Gigabyte. Oggi capacità di questo genere potrebbero far sorridere, perché si trovano in uno smartphone di fascia alta. Naturalmente, come avviene nel  mondo dell’enterprise storage, il costo non era solo rappresentato dalla “capacità di archiviazione”, ma anche e in larga misura da tutta l’elettronica di controllo e relativo software: il costo di queste unità era altissimo, dell’ordine delle decine di migliaia di dollari, ma non solo le prestazioni erano date come “10 volte superiori” a quelle delle più velocit unità a disco (quelle Fiber Channel da 15 mila giri/m), ma nelle complesse architetture dei grandi sistemi, con algoritmi che ottimizzano gli accessi più frequenti, il beneficio era moltiplicato.

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Tradizionalmente, EMC, così come anche gli altri produttori di sistemi di storage, non ha mai prodotto in proprio le singole unità a disco, comprate invece da specialisti del calibro di Seagate. Dell-Emc non sarà a sua volta interessata a “produrre” memorie SSD, ma ad avere solidi rapporti con uno specialista del calibro dello “spin-off” di Toshiba, secondo produttore mondiale dopo Samsung, con una quota del 18% del  mercato del settore probabilmente si.

A cura di Sandro Frigerio
Tratto da FMC Report  Daily – 13 giugno 2017

Sandro.frigerio@fmc-comunicazione.it