Diego Piacentini e l’innovazione nella PA

Diego Piacentini e L’innovazione nella PA
Intervista a Diego Piacentini

Governance e investimenti. Il vero freno alla trasformazione digitale è il fattore legacy che non è solo tecnologico ma culturale

Dovremmo correre, ma camminare è meglio che stare fermi. Potrebbe essere questa la fotografia della PA in Italia. Con tre milioni di dipendenti, la Pubblica Amministrazione è la più grande azienda italiana. Secondo i dati della Scuola di Pubblica Amministrazione di Oxford (InCiSE Index), su 31 paesi, l’Italia è in coda alla classifica (27esimo posto) per efficienza e qualità dei servizi. Nella classifica DESI della Commissione europea sull’attuazione dell’Agenda Digitale, siamo al 25mo posto, quartultimi prima di Romania, Bulgaria e Grecia.

TI PIACE QUESTO ARTICOLO?

Iscriviti alla nostra newsletter per essere sempre aggiornato.

Nel 1997, siamo stati il primo paese in Europa a sperimentare la carta di identità elettronica. Venti anni dopo, siamo l’unico paese dove le carte di identità cartacee in circolazione sono la maggioranza. In questi 20 anni, il rapporto tra cittadini e pubblica amministrazione non ha conosciuto una vera rivoluzione. Solo negli ultimi cinque anni, si è mosso qualcosa. Pubblica amministrazione significa scuola, sanità, giustizia, sicurezza, ricerca, fisco, trasporti, energia. La PA è il motore dello Stato e determina l’attrattività degli investimenti e dei cervelli. Può essere un facilitatore se funziona oppure un macigno sullo sviluppo e il benessere economico se non funziona. Dal 2014 al 2020 sono stati assegnati 11 miliardi di fondi europei per la trasformazione digitale. Nel 2017, ne abbiamo spesi solo il 5%. Con PagoPA, nel 2017  le transazioni sono solo 4 milioni (dato di ottobre). E al sistema SPID risultano iscritti solo 1,9 milioni di cittadini. Nel 2018, il totale delle transazioni è schizzato a quota 14.656.109 con un tasso di crescita del 219% rispetto ai mesi dell’anno precedente, mentre le identità rilasciate hanno raggiunto quota 2.869.994.

Una delle 14 misure dell’Agenda Digitale italiana è l’anagrafe nazionale dei cittadini residenti (ANPR) per la quale nel 2013 sono stati stanziati 23 milioni di euro. Solo 721 sugli ottomila comuni italiani (il 9% – dati aggiornati al 12 ottobre 2018) hanno aderito alla piattaforma, riversando i dati dall’anagrafe locale a quella centrale. Tra i comuni virtuosi ci sono Bergamo, Como, Trento, Torino, Milano, Martina Franca. Con l’adesione all’ANPR le pratiche demografiche diventano operazioni automatizzate, semplici e immediate. E per l’amministrazione significa un risparmio sui costi e servizi migliori. L’inefficienza della PA ci costa quasi 30 miliardi di euro, circa 2 punti di PIL. Per le imprese, in particolare, la burocrazia rappresenta un costo molto rilevante, con impatti che si attestano tra il 2% e il 4% del fatturato e con pesi più elevati al decrescere della dimensione dell’azienda.

Leggi anche:  Digitalizzazione della Pubblica Amministrazione Locale: Exprivia si aggiudica gara Consip

Il Governo italiano si sta muovendo anche su intelligenza artificiale e blockchain con l’istituzione di due commissioni ad hoc e di un Fondo nazionale per l’innovazione digitale. Nel decreto Milleproroghe è stato inserito il rinnovo di un anno del Team per la Trasformazione Digitale che non sarà più guidato da Diego Piacentini. Al termine dei 45 giorni di “propogatio” (che scadranno alla fine di ottobre), l’ex commissario straordinario per l’attuazione dell’Agenda Digitale e vicepresidente di Amazon (ruolo lasciato in agosto) è pronto a passare il testimone e a tornare a Seattle dalla sua famiglia.

Al momento, si conosce solo il nome della nuova direttrice generale dell’Agenzia per l’Italia Digitale, Teresa Alvaro. Per Diego Piacentini, che lavorerà fino alla nomina del nuovo commissario, la condizione di partenza per innovare la PA – «è una governance che parta dal centro». Una condizione necessaria ma non sufficiente perché – «solo con una sinergia concreta con le amministrazioni locali si può realizzare questo processo di cambiamento». Il ridisegno dei processi e la loro digitalizzazione possono dar luogo a una vera spending review e determinare una crescita di efficienza. Ma la bassa velocità di adozione e la dimensione frammentata con cui marcia l’innovazione della PA sul territorio disegnano ancora una geografia estremamente discontinua e disomogenea.

Data Manager: Come definirebbe il lavoro svolto in questi due anni?

Diego Piacentini: Come quello di un idraulico. Abbiamo lavorato per cambiare il sistema della PA dall’esterno. Il team digitale è un manipolo di data scientist, analisti dei processi complessi, esperti legali, che in questi 24 mesi ha navigato tra regole e ostacoli, anche contro corrente. Sono orgoglioso dei risultati raggiunti.

Leggi anche:  Nuovi equilibri nel mondo ibrido

Che cosa lascia?

Un team di persone straordinarie e capaci. Mi auguro che il Governo possa andare avanti prendendo in considerazione le nostre proposte in materia di finanziamenti, governance e competenze per proseguire il cammino fatto e accelerare la trasformazione digitale del Paese.

Non conoscere i meccanismi della PA è un limite?

In realtà è stato l’unico modo per non fermarsi davanti ai tanti no che abbiamo ricevuto. Il cambiamento non è solo una questione di tecnologia, ma di persone. L’abbattimento dei silos organizzativi in cui sono impegnate le imprese, si deve applicare anche alla PA. Il tuo cliente non è l’altro ufficio. Il tuo cliente è il cittadino. Quando riusciremo a pensare in questo modo, l’integrazione sarà un passaggio naturale.

L’Estonia è nella top ten dei paese più digitalizzati d’Europa. Questo significa che il fattore legacy è il vero freno alla trasformazione digitale?

Il cambiamento dell’esistente è la parte più complicata. Il fattore legacy, che non è solo tecnologico ma culturale, è uno dei freni principali alla trasformazione. La situazione della PA in Italia non è omogenea. Ci sono realtà molto avanzate e situazioni di grande ritardo. Spesso non dipende dai singoli individui, ma dall’organizzazione nel suo complesso. La Gran Bretagna è partita con un team digitale simile al nostro nel 2010. Noi siamo partiti a settembre 2016, e abbiamo rimosso un gap di sei anni. Ovviamente, dobbiamo recuperare il tempo perduto.

Qual è la strategia che avete adottato?

Abbiamo lavorato molto sulla awareness. Molti amministratori e molti politici non si rendono conto che la trasformazione digitale non è solo l’investimento IT di cui si deve occupare il responsabile dei sistemi informativi, ma è un’attività prevalentemente di governo delle organizzazioni. E per questo motivo, ha senso che la regia resti nelle mani della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Allo stesso modo, in un comune è il sindaco che deve guidare l’innovazione, esprimendo una strategia, creando una squadra, affidandosi a un assessore competente. Il vertice deve dettare le priorità e i piani di esecuzione.

Leggi anche:  Minsait accompagna la Giustizia Amministrativa verso un futuro data-centrico

Qual è il messaggio chiave?

Tutte le pubbliche amministrazioni centrali e locali devono comprendere che senza trasformazione digitale non si va da nessuna parte e si influenza negativamente la crescita del Paese. Mi auguro che tra cinque anni, saremo nella posizione della Gran Bretagna. Il cittadino ha una esperienza atavica di inefficienza della PA. In pratica, gli italiani sono educati all’inefficienza. Come Paese, dobbiamo essere in grado di rovesciare questo modello negativo.

Si parla molto di intelligenza artificiale anche nella PA. Che cosa ne pensa?

Il sito web del Team Digitale è bilingue ed è tradotto completamente in inglese da un algoritmo di translation machine, messo a punto da una startup romana. L’intelligenza artificiale è un tema importante, ma ha senso parlare di AI su singole applicazioni e non per il governo generale di un’organizzazione. Quello che serve veramente in questo momento è garantire l’accesso al dato, che non è una questione legislativa, ma di processo.

C’è un problema di ownership dei dati?

L’atteggiamento più diffuso è che il dato è mio e non lo condivido. Bisogna passare da un concetto di convenzione a uno di apertura del dato. Per questo nel Piano triennale abbiamo puntato sull’interoperabilità e su applicazioni di esposizione dei dati in grado di fare da piattaforma per l’erogazione di altri servizi. Non si può parlare di intelligenza artificiale se non risolviamo il problema dell’accessibilità del dato.

Qual è il consiglio per le imprese?

Mettere al centro il cittadino/utente/cliente significa partire dal problema. Spesso si fa il contrario, partendo dalla soluzione astratta. I fornitori di tecnologie possono fare da driver, ma devono essere responsabili delle scelte e anche degli errori.

Si è definito un idraulico della PA. Dopo due anni, lo rifarebbe?

Assolutamente sì. Credo che sia stata una delle esperienze professionali più importanti della mia vita. Ogni manager, dopo 30 anni in azienda, dovrebbe mettersi a disposizione del Paese. È il concetto di civil servant. Portare nella PA le esperienze migliori, maturate nel mondo delle imprese, permetterebbe non solo di accelerare il cambiamento, ma di assicurare continuità all’innovazione.