Gig economy e rapporti di lavoro, le imprese navigano a vista

Un post pubblico su Facebook può costare il posto di lavoro

In attesa della direttiva Ue, si complica la scelta di quale contratto offrire ai gig worker per il sovrapporsi di norme e decisioni dei Tribunali

Chi gestisce o vuole creare nuove piattaforme digitali potrebbe trovarsi di fronte a un bivio normativo: quale contratto offrire, in Italia, a un candidato gig worker? Secondo la definizione più versatile, il gig worker presta il proprio lavoro per soddisfare una richiesta veicolata tramite una app dove l’algoritmo assegna e smista il lavoro in base alle richieste dalla clientela. A questo “nuovo” gruppo di lavoratori non appartengono solo i ciclo-fattorini dei pasti a domicilio, ma anche i freelance che erogano prestazioni qualificate on-demand e, infine, chi svolge “lavoretti” in casa altrui cogliendo una richiesta pubblicata su una piattaforma. Il sistema di lavoro della cosiddetta gig economy è – dunque – “freelance”, con prevalenza di lavori flessibili e intermittenti.

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Se quelle ricordate sono in sintesi le caratteristiche della prestazione di un gig worker, più difficile è trovare lo strumento contrattuale con cui regolarle: una collaborazione co.co.co. o una autonoma? O il “vecchio” contratto di lavoro subordinato? La scelta non è indifferente (si pensi solo ai diversi costi) ed è stata resa più complessa nelle ultime settimane. A febbraio, infatti, la Corte d’Appello di Torino aveva stabilito che il rapporto dei riders di Foodora – vista la non obbligatorietà della prestazione lavorativa – dovesse qualificarsi come “etero-organizzato” (Art. 2, co. 1, D.lgs. 81/2015), vale a dire un rapporto di natura autonoma, a cui si applicano alcune tutele tipiche del lavoro subordinato, incluse quelle retributive e assicurativo-previdenziali.

Più di recente, il 12 aprile 2019, la Regione Lazio ha adottato la prima legge regionale sul lavoro digitale e, tra le sue finalità, spicca la tutela della salute e della dignità dei lavoratori digitali. Per conseguire questi obiettivi, il legislatore laziale ha deciso sia di definire il “lavoratore digitale” sia di apprestare un insieme di tutele minime che spaziano dal dovere di fornitura di adeguati DPI, alla previsione di un compenso a tempo e divieto di cottimo. La norma ha – però – già destato dubbi di tenuta costituzionale viste le potenziali disparità di cui potrebbe essere fautrice (una fra tutte: le leggi regionali si applicano all’interno della Regione che le promulga). Qualche giorno dopo, il 16 aprile 2019, il Parlamento europeo ha approvato una delibera per l’adozione di una direttiva che riguarderà le condizioni di lavoro di quanti svolgono la loro attività in favore delle piattaforme digitali. Secondo questa delibera, ai lavoratori dovranno essere riconosciuti dei “diritti minimi”. Anche in questo caso, le perplessità non sono mancate perché la delibera pare escludere dal suo campo applicativo i lavoratori autonomi.

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Infine, il 6 maggio 2019, il Tribunale di Roma ha stabilito che i collaboratori coordinati e continuativi impiegati in un call center outbound non sono lavoratori subordinati perché liberi di decidere se e quanto lavorare in determinate fasce assegnate dal committente. A questi collaboratori, pur ricorrendo i requisiti della etero-organizzazione, non sono state però estese le tutele del lavoro subordinato perché, in quello specifico settore, le parti sociali avevano già sottoscritto un accordo inerente i trattamenti normativi/economici loro applicabili (Art. 2, co. 2, D.lgs. 81/2015). Insomma, la scelta del “miglior” contratto non sarà cosa facile e l’ultimo capitolo di questa vicenda non pare ancora scritto: to be continued!


Avv.ti Andrea Savoia partner e Marilena Cartabia senior associate – UNIOLEX Stucchi & Partners