Evoluzione di sistema o innovazione di sistemi? Il mercato dell’ICT affronta un nuovo modo di fare industria. Una modalità data-oriented che richiede riorganizzazione, investimenti in tecnologia, formazione, open innovation e partnership strategiche. Ma che soprattutto deve puntare alla sostenibilità

Le frontiere dell’automazione industriale stanno allargando i loro orizzonti e procedono verso l’integrazione di due mondi digitali un tempo molto distanti: l’informatica della gestione aziendale da un lato e dall’altro la digitalizzazione di molti aspetti della produzione industriale o della generazione e trasporto dell’energia. I driver di questa convergenza sono la crescente virtualizzazione, che abbatte le differenze intrinseche dell’hardware, e la diffusione della IoT. Dall’interazione tra i due mondi e dai grandi volumi di dati che scaturiscono dagli impianti di produzione, possono derivare enormi vantaggi in termini di qualità, velocità ed efficienza della produzione, rapidità di modifica o allestimento di nuove linee di produzione. Un lungo fil rouge che mette in relazione tra loro le fasi dell’ideazione e della progettazione, dell’assemblaggio, della vendita e dell’assistenza post-vendita, creando un circolo virtuoso che unisce l’evoluzione del prodotto e la sua vita sul mercato. Data Manager ha chiamato i suoi interlocutori a fornire le loro esperienze nell’ambito della Smart Industry e dei piani di adozione dell’IoT in fabbrica, con un occhio alle tematiche della gestione e messa a valore dei nuovi dati generati, della protezione delle informazioni più sensibili e dell’importanza di ecosistemi e alleanze nel contesto del rinnovamento del settore manifatturiero. Come di consueto, gli esperti di IDC Italia ci aiutano a costruire un contesto quantitativo e strategico intorno a questi temi. Per Giancarlo Vercellino, associate research director di IDC Italia – «pensare l’IoT come innovazione richiede la capacità di mettere insieme competenze diverse complementari, creando dal nulla una filiera di operatori che convergono verso un design dominante». Un compito arduo perché sono tanti gli attori a doversi coordinare su una pletora di end user a loro volta molto diversi. Si tratta di una congiunzione, come quella di tante stelle: «Avviene raramente, ma quando avviene può davvero fare breccia sul mercato».

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UNA MAREA DI SENSORI

Il fenomeno IoT non smette per questo di crescere gradualmente, come un’onda di marea. Il 40% scarso di aziende che dichiarava di progettare e implementare soluzioni IoT alla fine del 2016, a gennaio 2019 era già diventata una percentuale prossima al 56% di aziende che già utilizzano queste soluzioni. «Se andiamo a guardare le motivazioni di chi investe su un paradigma ancora abbastanza confuso – continua Vercellino – il filo conduttore è ancora l’aumento di efficienza dei processi». Quando crescerà la percezione dei vantaggi dell’approccio analitico reso possibile dall’interconnessione, aumenterà anche la voglia di andare a scoprire punti di inefficienza oggi invisibile, impattando così sull’innovazione di processo, unica strada possibile per assicurare la competitività e generare nuova marginalità attraverso i servizi collegati ai prodotti. Un altro problema messo in evidenza dalle ricerche di IDC è il modo in cui i vantaggi della Smart Industry vengono percepiti, che è legato alla durata delle implementazioni e della maturità dei progetti. «Questo si concilia poco con gli orizzonti temporali delle imprese medio piccole, che non possono permettersi piani di lungo termine». In conclusione, Vercellino offre due indicazioni a chi pianifica l’ingresso nel mondo dell’IoT di fabbrica. Uno riguarda la particolare attenzione alla capacità di decentrare la potenza di calcolo verso la periferia, rappresentata dal punto di raccolta dei dati. «Se i dati devono sempre tornare al singolo data center si creano attese e ci si espone ancora di più ai rischi di sicurezza. Per questo bisogna applicare un concetto di micro-datacenter e utilizzare le connessioni per veicolare solo le informazioni che servono».

L’altro suggerimento – validato dalle risposte fornite nel corso del tempo alle indagini effettuate da IDC – riguarda la necessità di concepire in modo evolutivo l’intelligenza che viene “iniettata” nella fabbrica, partendo da finalità principalmente reattive e passando man mano, al crescere della capacità analitica, a una IoT predittiva, capace di anticipare i trend futuri, e infine prescrittiva, in grado cioè di dare un valido sostegno decisionale a chi deve gestire il business nella sua integrità. Insieme a IDC – in occasione di questo dossier – abbiamo coinvolto Fabio Massimo Marchetti che in ANIE Automazione presiede il WG Software Industriale. La missione istituzionale della Federazione di Confindustria alla quale aderiscono 1.400 aziende del settore elettrotecnico ed elettronico è di affiancare il mondo dell’impresa nel percorso di digital transformation. Una missione che nasce soprattutto da un bisogno di mercato, ma che gli incentivi governativi hanno sicuramente incoraggiato. «L’obiettivo – sottolinea Marchetti – è cambiare paradigma a favore di una maggiore competitività». In altre parole, il rischio concreto per chi decide di non seguire certi trend è l’obsolescenza, la perdita irrimediabile di terreno.

«Una buona parte delle grandi imprese sono partite» – spiega Marchetti. Secondo le stime di ANIE Automazione, stiamo parlando di una percentuale del 67%. «Mentre la piccola-media industria è in ritardo anche a causa di un gap culturale che ANIE cerca di colmare, creando nuova competenza e sensibilità». Un cambio di paradigma così radicale non si fa in pochi anni e con qualche incentivo – aggiunge Marchetti, ricordando la disponibilità online di un recente white paper curato da ANIE in collaborazione con le università di Firenze e Pisa e con la Scuola Superiore Sant’Anna che mette al centro gli investimenti per innovare la fabbrica e renderla digitale, grazie a un modello evoluto di valutazione del ROI.

FABBRICHE CONNESSE

«L’aspetto più centrale e abilitante di questo approccio è proprio l’interconnessione, che è alla base delle misure di incentivazione» – spiega Marchetti. La rete che collega impianti e sensoristica è il vero motore dei dati che nella fabbrica intelligente devono portare a una nuova capacità predittiva e decisionale. «Oggi, questo percorso verso la fabbrica data driven è ancora focalizzato sulla connessione. Ma ovunque vengano implementati progetti di tipo più analitico, questi vengono percepiti come qualcosa che funziona al di là dell’incentivo» – sostiene ancora Marchetti. Il concetto di data driven si estende gradualmente alla logica di prodotto, in un approccio integrato, più che convergente, alle cosiddette operation. Obiettivo finale: la closed-loop manufacturing che unisce il prodotto nella sua vita attiva tra le mani dell’end user e il laboratorio di ingegnerizzazione. «Un cammino già delineato nella grande impresa, mentre la PMI procede ancora per singoli vertical come la manutenzione preventiva».

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Con i primi interventi dei nostri interlocutori industriali arrivano le prime coincidenze con i trend identificati da Vercellino di IDC Italia e Marchetti di ANIE Automazione. Il focus sulla “messa in rete” è un fenomeno evidente e secondo Marco Campi, IT director di Marcegaglia Group, non del tutto nuovo. «Il controllo di processo nell’impianto e nei sistemi di movimentazione di un’acciaieria i dati li riceve da sempre» osserva Campi. L’attualità, prosegue il CIO, ha spinto Marcegaglia a calcare la mano sulla sensoristica e sulla connettività locale. «I nostri possono essere impianti di lavorazione molto complessi, capaci di produrre decine di terabyte al giorno, per i quali è necessaria una prima elaborazione in periferia». Le prime esperienze in questa direzione hanno inoltre aperto la strada a esperimenti di “retrofitting” sugli impianti meno recenti, dove la predisposizione alla connettività non è nativa. «Inutile, inoltre, parlare di cloud in situazioni dove non arriva neppure la fibra ottica» avverte giustamente Campi.

La novità più importante che arriva insieme al potenziamento dei volumi di dati da applicare è la possibilità di esplorare, grazie all’uso di algoritmi di machine learning, per dare risposta a eventi su cui in passato non era possibile intervenire per mancanza di “insight” e tutte quelle opportunità che non riguardano la gestione dei processi real-time in acciaieria, ma l’andamento storico di un impianto nel suo complesso. «In modo da approfondire – conclude Campi – fenomeni che abbiano un ritorno più ampio». Da qui il grande lavoro che Marcegaglia sta portando avanti con una piattaforma IoT finalizzata all’interconnessione di sensori e sistemi tra loro eterogenei e alta trasformazione dei dati in informazioni. Un lavoro che poggia sulle competenze interne al team guidato da Campi, anche se la società persegue una sua politica di partecipazione a diverse iniziative congiunte, per esempio con Federacciai e con alcuni vendor.

L’INNOVAZIONE APERTA

Anche Mario Attubato, corporate head of Digital Transformation di Saipem rivendica una personale affinità con un tema – la convergenza tra IT e OT – di cui è da anni convinto assertore. «IT, OT e IoT sono tre elementi che non sempre è facile combinare. Se mi trovo in una fabbrica nel cuore di un distretto industriale, la connettività è gestibile. Ma quando lavoro su una piattaforma in mezzo all’oceano»? Connessioni satellitari o terrestri via radio – non a caso preferite da realtà sparse in grandi territori come le utility dell’energia – possono risolvere i problemi, ma contribuiscono anche a spostare l’attenzione dalla semplice connessione a un livello superiore: quello dell’orchestrazione e della capacità di aggregare fonti eterogenee e non sincrone. «Un ostacolo su questa strada è la diversità dell’offerta» – spiega Attubato. «La difficoltà di dialogo con controllori numerici, in molti casi ad oggi, ti obbliga a sviluppare i driver ex novo».

Tra i campi di applicazione dell’IoT, un ambito importante – aggiunge Attubato – è la sostenibilità, ad esempio attraverso sistemi di GHG control ed energy efficiency. «Per un provider come Saipem, che si propone come solution provider sul mercato della transizione energetica, è un campo molto interessante su cui investire. Saipem ha sviluppato diversi “proof of concept” basati sull’IoT, per il tipo di interventi che l’azienda è chiamata a svolgere, il ritorno sugli investimenti è legato anche alla possibilità di condividere parte delle informazioni con il committente, per operare in sinergia (es. manutenzione predittiva d’impianto). Tutto indica che la capacità di innovare in quest’ambito sarà sempre più frutto della condivisione, di una vera open innovation. «La fabbrica smart lavora sul processo a livello di business, sviluppa e sperimenta. L’altro punto importante è lo scouting esterno di soluzioni da portare a scala e trasformare in standard interno. Non possiamo farlo da soli, dobbiamo tutti aprirci di più. Allo stesso modo, è fondamentale il continuo reskilling delle persone». Pur rappresentando una realtà dove l’IoT non viene ancora percepita come core, Attubato di Saipem ha molte idee sul tema della valorizzazione del dato. «La data governance ha bisogno di molteplici figure professionali specializzate e di un unico collante manageriale. Governare significa conoscere dove si trovano i dati, sapere cosa farne, collegarli al processo produttivo. È una competenza iper-orizzontale che ha dentro anche pezzi di business intelligence, di analytics. Deve appartenere a una nuova famiglia professionale che collabora fattivamente con i diversi domini verticali di competenza».

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Dalle conversazioni con i responsabili dell’innovazione, emerge un notevole livello di progettualità, comune sia alle grandissime che alle medie realtà. Nel caso di Candy Group, recentemente passato al gruppo cinese Haier, le trasformazioni in fabbrica sono governate a quattro mani, da Cesare Mottola De Nordis che riveste il ruolo di CIO e da Sergio Rossi, nel ruolo di IoT technology director. «Abbiamo identificato due grosse aree di intervento, una nell’ambito prettamente industriale, l’altra che invece riguarda una sorta di enhancement di prodotto e va in direzione di una Internet delle Cose in chiave consumer» – spiega Mottola De Nordis. Nell’ambito industriale, sull’onda degli incentivi governativi e attraverso un consorzio di società, Candy ha lavorato molto sulle soluzioni integrate per la supply chain, dal product lifecycle management al manufacturing execution system con l’obiettivo di acquisire una maggior visibilità sui processi operativi e avere il tracciamento completo della componentistica. A queste informazioni si aggiungono quelle della “carta di identità” dei prodotti, che ha generato un database di componenti critici in grado di abilitare una maggiore rapidità di intervento sui problemi qualitativi della supply chain, con un impatto diretto sul valore del prodotto stesso.

INTEGRAZIONE E CONVERGENZA

Un obiettivo che esula dalla carta di identità riguarda la diversa visibilità da dare alle istruzioni per l’assemblaggio, che hanno attraversato una fase di radicale dematerializzazione. «L’idea era riuscire a ottimizzare l’applicazione delle conoscenze dei nostri addetti alle linee, per esportarle verso i nuovi impianti Candy nel Far East». C’è però una terza direzione di ricerca – continua Mottola De Nordis. La crescente integrazione sul mondo dell’ingegnerizzazione di prodotto. «In un futuro non lontano, puntiamo molto non tanto sulla personalizzazione dei nostri prodotti bensì sulla capacità di chiudere velocemente il loop tra fase di design e fase di execution, includendo il manufacturing e il servizio post-vendita». La parte di cui si occupa Sergio Rossi fa tesoro della funzione di pioniere della IoT consumer che il gruppo – allora Candy Hoover – rivestiva già dal 2013, con i primi prodotti “aumentati” dalla connettività di tipo IP, usata per esempio per consentire all’utente finale il monitoraggio remoto, via app, delle fasi di avanzamento del bucato in lavatrice o della cottura nel forno elettrico. «Grazie a queste implementazioni, siamo diventati leader sul mercato delle appliance connesse. Oggi, ragioniamo su come aumentare ancora il valore del prodotto per il cliente e trovare nuove forme di interazione, per esempio, con comandi vocali» – spiega Rossi. I modelli presentati all’ultima edizione dell’IFA a Berlino, parlano e ricevono istruzioni a voce, possono essere programmati in remoto e offrono ampie possibilità di allargamento dei servizi connessi e di condivisione “social” delle modalità di impiego.

L’ecosfera di servizi e informazioni condivise che Candy Haier è già in grado di costruire con lavatrici, forni, frigoriferi e cantinette per il vino, rappresentano una estensione dell’IoT di fabbrica. Nel caso di Citterio, l’attenzione torna a focalizzarsi sull’efficienza della produzione e sulla pianificazione. Per il CIO Paolo Fila, il percorso ha inizio più di un anno fa, quando l’azienda si rende conto dell’importanza di adottare una strategia 4.0. La prima decisione della piccola squadra di governo delle tecnologie Citterio è di acquisire una nuova risorsa: un giovane ingegnere dell’automazione. «Abbiamo individuato una specifica area su cui focalizzarci, la produzione delle vaschette di prosciutto» – racconta Paolo Fila. «Da questa linea, entra il semilavorato ed escono i pallet con le confezioni delle singole vaschette. Una scelta contingente perché l’impianto soffriva di problemi di disponibilità: tanti micro-fermi che messi insieme incidono molto sui costi. Una visione di insieme su tutte le componenti della linea poteva permetterci di risalire alle cause dei micro-fermi, apparentemente inspiegabili». Il problema affrontato inizialmente da Fila e i suoi collaboratori è molto comune in un mondo produttivo dove le singole linee di produzione (tredici, nello specifico della fabbrica Citterio) rappresentano un mosaico di stazioni di lavoro di diversi produttori, con diverse date di rilascio.

Anche solo un accurato inventario dei nodi da connettere, delle compatibilità e degli eventuali patch da sviluppare diventa fondamentale. Ogni punto di controllo PLC, ogni punto di contatto che si trasforma in fonte di dati, deve essere protetto, eventualmente isolato da firewall, per una sicurezza – che proprio perché critica – deve essere pensata “by design”, intrinseca alla definizione delle architetture interconnesse che consentono di approcciare le applicazioni data driven. «Tutto questo – sottolinea Fila – porta con sé un aumento dei dati. E la cultura del dato è proprio quello che vorremmo implementare e ampliare con l’utilizzo del dato raccolto attraverso una adeguata business intelligence: uno strumento capace di farci vedere le cose che oggi non vediamo».

MOTIVATI A CAMBIARE

Un’esigenza del tutto analoga emerge dal racconto della experience di Caprari, che fornisce soluzioni avanzate per la gestione del ciclo integrale dell’acqua per rispondere alle diverse esigenze che vanno dall’industria all’agricoltura. Il modus operandi che descrive Alessandro Galaverna, IT e Digital Transformation director, è interessante per molte ragioni. L’obiettivo perseguito dall’azienda, fondata nel 1945 da Amadio Caprari e governata dalla terza generazione, è quello di una vera e propria trasformazione culturale, basata sullo studio e la revisione dei processi e dell’organizzazione. Non a caso, la guida di questa trasformazione è in capo a Galaverna che siede nel comitato direttivo dell’azienda. «Anche attraverso la digitalizzazione della fabbrica, il progetto vuole far evolvere la Caprari prodotto-centrica del passato in un’azienda che mette al centro cliente e servizi, passando da un approccio gestionale per funzione a una gestione trasversale per processo». Fino a ieri – come ci spiega Galaverna – Caprari pensava per “isole” di prodotto, mentre oggi vuole capovolgere il paradigma, rivedendo tutta l’operatività della fabbrica. «L’intera catena viene trasformata in una value chain dal cliente al fornitore con una migliore pianificazione della domanda. Al contempo, ridisegniamo gli indicatori chiave per aumentare il livello di servizio al cliente e per costruire una nuova business intelligence in grado di misurare i singoli processi e la performance aziendale nel suo complesso».

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In questo contesto di digitalizzazione e ottimizzazione dei processi operativi, viene affrontato l’aspetto della fabbrica con un aumento del livello di automazione anche sulla parte manifatturiera. Caprari – continua il responsabile della digital transformation – sta valutando l’adozione di soluzioni di Manufacturing Execution System o di Manufacturing Operations Management – «in modo da consentire una rapida acquisizione del dato di fabbrica e la sua integrazione, non solo per sfruttare gli incentivi dell’iperammortamento ma per dare un contributo al recupero di efficienza interna, riallineando i processi di logistica, di distribuzione». Nel suo racconto, Galaverna sottolinea l’importanza dell’aspetto motivazionale. Tutto il piano di rethinking di Caprari, fermamente voluto dalla proprietà, prevede stimoli comunicazionali e di engagement. Il lavoro di implementazione viene portato avanti in modo incrementale, identificando le aree che possono produrre in breve tempo, miglioramenti anche piccoli, ma concreti. «Non una rivoluzione, ma un’evoluzione verso il futuro che vedrà solo fabbriche smart» – afferma Galaverna.

Dopo questo interessante excursus sulla filosofia della Smart Industry, vista con gli occhi della media impresa, Gabriele Provana, head of ICT Operations & End users services SVP di Eni propone il punto di vista di un operatore globale, da sempre conosciuto per l’ambizione delle sue strategie ICT. «Nella sua storia decennale – spiega Provana – l’ICT di Eni è sempre stata al servizio di business molto diversi, dall’esplorazione alla finanza, dall’oil & gas al trading, dalla chimica alla raffinazione e oggi alle fonti alternative. Per noi, equivale a soddisfare le necessità operative e informatiche di 33mila colleghi in 70 nazioni». All’insegna dell’economia circolare, del riuso, Eni ha costruito il suo data center con rigorosi criteri “green” di efficienza energetica e sostenibilità ambientale.

LA SFIDA DELLA SOSTENIBILITÀ

Tra le strategie digitali a supporto di questa evoluzione, la multinazionale dell’energia punta molto su strumenti Big Data come l’IoT. Ma come metabolizzare e applicare queste tecnologie? «Il Green Data Center – spiega Provana – è il portale dell’evoluzione digitale della nostra infrastruttura IT e della sicurezza di nuova generazione. Non in una dimensione isolata, ma come nodo di una rete più ampia, ibrida “on prem” e in cloud. Accanto a questo, sviluppiamo la strategia che valorizza il patrimonio di dati e la nostra capacità di connessione a livello mondiale: più di settemila collegamenti geografici tra cavo, fibra, ponti radio a microonde. I 24 petabyte di capacità del data center sono la base di un asset che – come un impianto industriale o l’algoritmo di trading di Borsa – racchiude un intero know-how perché rappresenta il bacino al quale attingere le informazioni che ci rendono competitivi».

Provana a questo punto entra nel dettaglio delle numerose applicazioni che Eni implementa con la sensoristica IoT. Nel settore della raffinazione, per esempio, ci sono i sensori aggregati nei Data Control System, equivalente dei processori PLC, che seguono l’automazione discreta in fabbrica e che in questo caso governano i processi continui delle reazioni. I dati di questi sensori, centinaia di migliaia in alcuni impianti, alimentano i database per le analisi real time che permettono di controllare la produzione e la manutenzione. «Un secondo esempio è lo stesso Green Data Center, dove 75mila sensori ci permettono di essere sempre al top nell’efficienza energetica e nella dispersione del calore» – aggiunge Provana, parlando poi di tecnologie wearable, utilizzate per la protezione degli operatori e la sicurezza sul lavoro. «A Viggiano, in Val d’Agri, è stato realizzato il primo modello, esportabile su altri impianti, di sito digitale, dove facciamo smart safety e smart maintenance attraverso l’elaborazione Big Data su casi impiantistici». Nelle parole di Gabriele Provana, possiamo vedere un nuovo modo di fare industria. Una modalità data-oriented che richiede riorganizzazione, investimenti in tecnologia, formazione, open innovation e partnership strategiche. Ma che soprattutto deve puntare alla sostenibilità. «La trasformazione può essere accelerata dalla tecnologia, ma è prima di tutto umana. Occorre una visione ampia dello sviluppo e la determinazione nel definire una roadmap condivisa per raggiungerla. Perché le scelte devono essere nostre, non imposte da un’evoluzione senza regole, ma guidate da una visione etica».