Fabrizio Monge: «Gli algoritmi non giudicano»

Fabrizio Monge: «Gli algoritmi non giudicano»

Gli algoritmi osservano, imparano, conoscono, sbagliano, riprovano e creano regole proprie per raggiungere l’obiettivo nel modo più efficiente possibile. La questione è capire la differenza tra una struttura algoritmica classica e una che è in grado di apprendere

Marzo è stato il peggior mese di sempre per gli hedge fund equity di tutto il mondo e il mercato non era mai sceso tanto velocemente. L’emergenza da Coronavirus ricorda – per i mercati azionari – la Grande Depressione del ‘29. Ma i mercati non sono più fatti meramente di persone, di gestori che fanno analisi osservando un monitor o i bilanci. La maggior parte dei mercati sono algoritmi. L’intelligenza artificiale è usata da alcuni gestori per guidare le scelte di investimento e a tal proposito ho voluto parlarne con Fabrizio Monge, consulente finanziario dal 2001 e programmatore di algoritmi di gestione del rischio guidati da intelligenza artificiale. La sua storia parte da lontano. Da piccolo, si divertiva ad analizzare i problemi, codificarli e generalizzarli, come se dovessero essere trascritti in modo scalabile e riproducibile.

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«Ovvio che questa cosa mi ha dato più problemi che vantaggi nella vita ordinaria, perché la maggior parte delle situazioni che analizzavo si presentavano magari una sola volta, e questo modo di procedere richiedeva un sacco di energie mentali e di tempo» – racconta Monge. «Non so se fosse un gioco oppure una ossessione. Poi è arrivato il primo PC – se vogliamo chiamarlo così – un Commodore 64 che attaccavo alla TV in bianco e nero che salvava i lavori sulle cassette musicali. E mi divertivo a programmare in BASIC. Così ho iniziato a capire che la mia ossessione per riscrivere i problemi in termini generali e riproducibili era utile, almeno in questa attività. Era come parlare la mia lingua madre, quella che mi usciva dal cervello, senza doverla tradurre».

E poi? «La vita mi ha poi portato a occuparmi di tutt’altro e il feeling con i calcolatori e i numeri è rimasta per un certo periodo una passione personale e null’altro» – continua Monge. «Sono diventato consulente finanziario (o promotore, con il termine dell’epoca) nel 2001. I mercati avevano da poco iniziato una delle più grandi crisi della storia recente ma io volevo fare quel mestiere perché pensavo di poter lavorare con i numeri e con i dati. La professione era, però, completamente diversa da quella che immaginavo. La competenza più importante era la capacità relazionale, di cui scoprii presto essere completamente sprovvisto. Sono comunque andato avanti, sono tutt’ora iscritto all’albo e seguo direttamente un piccolo portafoglio. Per fortuna sono poi riuscito a capitalizzare questa esperienza nello sviluppo di algoritmi di intelligenza artificiale per la gestione del rischio di mercato e sono rinato, sono tornato a parlare la mia lingua, e questa è la mia vita attuale».

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OLTRE GLI SCHEMI

«Gli agenti economici e finanziari non sono razionali, non agiscono in un ambiente di piena informazione, non decidono da soli. Per gli algoritmi, che analizzano i dati senza preconcetti, le falle della teoria classica sono evidenti. Però nel mondo della consulenza finanziaria questi aspetti sono stati il driver per l’educazione finanziaria. In pratica si è preso quello che avevano codificato Kahneman e Tversky e si è pensato di usarlo per “vaccinare” le persone dai loro bias cognitivi e liberarli da alcune euristiche non ottimali. Le scoperte della finanza comportamentale vanno intese in modo molto diverso per me. La mia è una impostazione molto pragmatica perché gli algoritmi non giudicano: osservano, imparano, conoscono. Mi sembra di vedere all’opera una specie di infanzia perenne».

COSA FANNO I TUOI “INFANTILI” ALGORITMI?

E in che modo l’intelligenza artificiale riesce a guidarli nelle previsioni finanziarie? «Quello che cercano di fare i miei algoritmi e l’intelligenza artificiale che sviluppo – risponde Monge – è proprio quello di leggere i comportamenti umani nelle serie storiche, generalizzare l’apprendimento – ovvero scoprire le costanti in questi comportamenti – in modo da poter trarre degli insegnamenti utili per il futuro, e sfruttarli. Poi ricominciare ad apprendere per tentativi ed errori, aggiustamenti e così via».

E LE PREVISIONI?

«Sono abbastanza scettico sul fatto che riuscirò mai a considerare i miei algoritmi “predittivi”. Almeno nell’accezione che intende la maggior parte delle persone. Le mie strutture hanno un unico incarico: si limitano a riconoscere – e per ora lo stanno facendo abbastanza bene – le situazioni in cui il mercato rappresenta una macro e micro struttura tale da far presumere un rilevante rischio di calo generalizzato del mercato che analizzano. Per fare un esempio molto pratico e semplicistico, dobbiamo immaginare di trovarci di fronte ad una piazza affollata. È molto difficile sapere se tra pochi minuti sulla piazza ci saranno più o meno persone e come si comporteranno, ogni giorno la gente sulla piazza si comporta in modo relativamente differente. Viceversa, ci sono delle situazioni in cui il comportamento diventa estremamente simile ad altri casi analoghi. Se qualcuno percepisce un pericolo imminente, per esempio, inizia a mandare messaggi alle persone più prossime in modo più o meno involontario e la folla esibisce dei comportamenti riconoscibili, oltre una certa soglia, gli individui sono quasi indistinguibili e si verifica quel pattern sociale che chiamiamo panico. Come la gente sulla piazza anche il mercato è vivo: cambia nel tempo le sue reazioni agli eventi, diventa più indifferente ad alcuni eventi e più sensibile ad altri».

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CAPIRE LA DIFFERENZA

Qual è la differenza tra un modello quantitativo classico e invece un altro guidato da intelligenza artificiale? La questione è capire la differenza tra una struttura algoritmica classica e una che è in grado di apprendere. È un punto su cui la gente fa molta confusione» – spiega Monge. «Ed è normale per chi pensa allo sviluppo di software come a una serie di comandi espliciti. Nel sistema a cui le persone sono abituate, il programmatore dice alla macchina cosa deve fare qualora accada una determinata condizione. Queste sono le regole esplicite. La macchina esegue, non deve essere intelligente, basta che lo sia il programmatore. La macchina che impara funziona diversamente. In questo caso, il programmatore non dice alla macchina cosa deve fare, crea delle strutture che emulano una mente umana, in grado di apprendere dai dati e le sottopone una funzione da massimizzare (o minimizzare). Quando ha finito, se la macchina non ha visto i dati, non sa fare assolutamente nulla. Ma appena inizia a macinare i dati comincia ad apprendere, crea le sue regole per raggiungere l’obiettivo nel modo più efficiente possibile: sbaglia, riprova e fa tesoro degli errori commessi. La cosa più bella è vedere come l’algoritmo sia in grado di riconoscere dei rapporti di causalità non lineari. E di andare molto oltre quello che avrebbe potuto insegnarle il suo programmatore in una frazione del tempo».

LA NATURA DEL MERCATO

Ricordo che non sei un gestore ma un consulente. In che modo vengono usati i tuoi algoritmi? «I miei modelli – risponde Monge – sono rivolti principalmente ai consulenti finanziari e ai private bankers. Hanno bisogno di essere interpretabili da un ipotetico investitore, almeno a grandi linee. Ecco perché mi sono affezionato soprattutto all’utilizzo degli algoritmi genetici in ottimizzazione e alle tecniche di bagging e boosting sugli alberi decisionali, come la random forest e il boosted tree. Si tratta di tecniche che si collocano a metà strada fra i black box models, in cui l’osservatore non può ragionevolmente motivare le scelte della AI (e che i consulenti non vedono di buon occhio), e i white box models, che hanno il vantaggio di essere facili da interpretare, ma il difetto di essere troppo lineari per interpretare i mercati finanziari». Bastava chiudere gli occhi, puntare il dito su un punto qualsiasi del tabellone e i titoli che compravi cominciavano a salire. Succedeva prima della crisi del ‘29. In parte è successo prima del 2020. Cambia la tecnologia eppure la crescita non è mai continua. Esaltazione e depressione continuano a farla da padrone a Wall Street. Perché l’intelligenza artificiale legge le emozioni, forse le anticipa, ma la natura umana è sempre la stessa. Così come la natura del mercato.

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