Il business guidato dai dati. Facile a dirsi. Soprattutto in tempo di crisi. Quante aziende sono veramente pronte e che cosa bisogna fare per una data strategy di successo? Ecco il profilo delle imprese italiane che stanno affrontando la sfida

Una data driven company è un’azienda guidata dalle informazioni, quindi con un approccio basato sui dati, in grado di prendere decisioni basate su fatti oggettivi e non su sensazioni personali. La data driven strategy è ormai da tempo un leitmotiv: sembra difficile poter trovare aziende che non abbiano lavorato sui dati per renderli un fattore determinante per la propria crescita ed espansione, e invece non è così. Tutte le organizzazioni concordano nell’importanza di raccogliere e analizzare dati, ma solo un terzo degli intervistati del sondaggio “What it takes to be data driven” del 2017 di TDWI ha affermato di essere veramente guidato dai dati, il che significa che solo un terzo delle organizzazioni prende decisioni e mette in opera azioni dopo aver analizzato i dati.

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Con Giancarlo Vercellino, associate director research & consulting di IDC Italy, cerchiamo di capire se e come sta cambiando la situazione. In Italia, lo scenario è molto diversificato: «Circa un 36% di aziende si trovano ancora in una fase di pura esplorazione, il 48% ha già messo in produzione gli algoritmi da alcuni anni e il 16%, pur non implementando gli algoritmi dentro i processi, comunque ne sfrutta gli insights in modo continuativo per governare i processi aziendali. Di fatto, già da alcuni anni in Italia, potremmo dire che esistono degli “augmented managers” che di fatto impiegano in modo abituale gli algoritmi per creare nuove euristiche di decisione». Qual è il profilo delle imprese italiane data driven? «Nel 35% dei casi – spiega Vercellino – l’impresa data driven ha oltre mille addetti, nel 17% dei casi oltre 10mila. Inoltre, dispone di un team di analisti, data scientists, data engineers superiore ai 10 addetti nel 29% dei casi, superiore a 20 nel 18%. Si tratta di una tendenza che abbraccia anche le PMI, almeno in un caso su tre, però si tratta di realtà che a livello organizzativo dispongono di un team di analisti molto ristretto, composto al massimo da una o due persone in oltre la metà dei casi». A livello di investimenti, soltanto nel 10% dei casi – continua Vercellino – «la spesa supera i centomila euro in applicazioni, strumenti e cloud negli ultimi cinque anni». Si tratta di organizzazioni – «che investono di più sulle competenze e sulle persone, e fanno un ampissimo uso degli strumenti open source per condurre le analisi più sofisticate».

FINANCE E SANITÀ

Tra i settori che hanno compreso la centralità dei dati per il business, ci sono le assicurazioni. Un esempio è Amissima che ha implementato un modello di gestione del rischio e di tariffazione avanzato sul ramo RC Auto per creare un’interfaccia d’uso più vicina alle esigenze degli agenti di rete e ai clienti finali. Con oltre 400 agenzie sul territorio nazionale e attraverso le filiali di Banca Carige, Amissima Assicurazioni è riuscita a valorizzare la propria banca dati tariffaria auto di oltre 4 milioni di record puntando sull’innovazione. Per raggiungere l’obiettivo di crescita, in volume ma anche in profitto, la compagnia ha anche rafforzato la capacità di prezzare non solo i rischi già assunti ma anche i nuovi rischi, in modo da migliorare la profittabilità della compagnia e scongiurare l’abbandono della clientela. La soluzione di Visual data mining e machine learning è stata integrata nel modello di tariffazione multivariata, dando centralità ad aspetti statistico-attuariali nel processo di Governance. La soluzione scelta da Amissima è totalmente in cloud, riuscendo così a limitare al minimo gli impatti sui sistemi informatici interni di compagnia senza però compromettere in alcun modo l’efficienza dello strumento.

Un altro caso interessante nel settore finance è BancoPosta, che ha abbracciato la digital transformation attraverso l’introduzione di tecniche di machine learning per il sistema di ascolto della clientela, attraverso l’integrazione dei canali digitali e per recuperare efficienza e competitività nei settori tradizionali. L’approccio data driven unificato tra sportello, intelligenza centrale e campagne marketing ha permesso a BancoPosta di identificare una clientela multi-bancarizzata e offrire servizi più evoluti e apprezzati dall’utente finale. Oggi, Bancoposta ha 34 milioni di clienti retail, 7,4 milioni di correntisti, 11 milioni di titolari Postepay. Con il programma di loyalty hanno erogato 75 milioni di sconti e hanno “bancarizzato” una fascia della popolazione, i giovani sotto i 25 anni e i nuovi cittadini non italiani, contribuendo a elevare il livello di servizio atteso nella clientela tradizionale.

La pandemia Covid-19 ha messo le strutture sanitarie anche di primo livello, come il Policlinico Universitario “Agostino Gemelli” sotto grandissima pressione, imponendo la necessità di dare risposte adeguate in brevissimo tempo. Il coordinamento di tutte le risorse aziendali in tempi stretti e incalzanti ha consentito di basare le decisioni sui dati e informazioni a valore aggiunto che fanno differenza nell’attuare le scelte migliori per i pazienti colpiti dall’epidemia. E questo è stato possibile perché la struttura ospedaliera si era già dotata di strumenti per l’analisi dei dati, e nel momento dell’emergenza non ha dovuto improvvisare. Il Policlinico Gemelli – infatti – aveva in precedenza ridotto da un mese a un giorno i tempi di aggiornamento dei dati per le attività di controllo e gestione, all’interno di un processo di trasformazione “epocale” dei propri sistemi informativi: dalle unità operative vengono raccolti e convogliati al data warehouse solo i dati grezzi, senza interferenze di pre-elaborazione di altri software e quindi con la garanzia di attendibilità; da qui vengono selezionate le informazioni pertinenti alle finalità analitiche.

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La gestione dell’emergenza sanitaria rappresenta uno stress test senza precedenti sulla capacità delle organizzazioni di prendere le decisioni giuste nel più breve tempo possibile. Lasciando da parte le polemiche sulla qualità e le modalità di raccolta dei dati – che in molti casi più che per decidere sembrano essere un alibi per scaricare responsabilità politiche – quello che abbiamo visto è che chi aveva già adottato una piattaforma data driven non si è trovato impreparato. È il caso della Regione Veneto, che questa piattaforma l’aveva sviluppata qualche mese prima per tenere sotto controllo alcuni KPI ospedalieri. In pratica, la piattaforma esistente è stata reingegnerizzata in un sistema di biosorveglianza a disposizione delle autorità locali che ha permesso di integrare in tempo reale i dati già disponibili dalla pubblica amministrazione.

I DATI GIUSTI PER RIPARTIRE

Quali dati occorrono per essere data driven? Quali sono e dove sono i dati più importanti per il business?

La risposta corretta a queste domande è alla base di una data strategy di successo. Scegliere e reperire i dati giusti, creare modelli che aiutino non solo a prevedere ma anche a ottimizzare i risultati del business, sono operazioni spesso complesse ma necessarie per permettere che i dati diventino parte integrante della strategia competitiva. Oggi, moltissime aziende hanno a disposizione una miriade di dati, provenienti sia da fonti interne – di solito sparsi su sistemi diversi con formati eterogenei – sia da fonti esterne che permettono di inquadrare la propria realtà nel contesto competitivo di riferimento. Ma non sempre le organizzazioni hanno all’interno del proprio team i mezzi e le capacità per estrarre informazioni e ricavare valore da questa mole di dati. Una strategia data driven richiede di partire con la valutazione di quali dati si ha davvero bisogno per le misurazioni e le analisi che vengono richieste sin dalle battute iniziali di un progetto: recuperare i dati in un secondo momento non è certo la strada migliore. Secondo molti analisti, fino al 40 per cento di tutti i processi strategici fallisce a causa della mancanza di dati. Le aziende devono progettare i loro sistemi in modo che i dati siano accessibili quando si vuole, verificare la frequenza con la quale vengono aggiornati, la loro completezza, la loro coerenza, capire cosa serve per integrarli, individuando i dati duplicati, risolvendo problemi di qualità dei dati e aderendo ai rigidi requisiti normativi e di conformità per la protezione dei dati personali e della privacy. Lavorare su dati incompleti, corrotti, obsoleti, non aggiornati, insomma non affidabili, porta a prendere decisioni sbagliate. La grande domanda che ogni azienda si deve porre è questa: i nostri dati sono pronti a supportare le analisi necessarie al business aziendale?

È ovvio che migliori sono le best practice utilizzate per costruire la base di dati, più precise e accurate saranno le analisi che potranno essere effettuate. Non per niente, per un data scientist è normale impiegare dal 50 all’80 per cento del proprio tempo di sviluppo del modello per la sola preparazione dei dati, affrontando un’ampia gamma di concetti, tecnologie e processi di data management. Partendo da qui, si possono implementare e misurare le azioni che permettono di comprendere la posizione competitiva aziendale e i bisogni dei clienti. Ma avere un focus su dati, numeri e misure quantitative non deve però sostituire il valore della visione. Oggi, gli utenti sono sempre più connessi, e quindi generano una montagna di dati, che contengono informazioni utili al business: le tecnologie a disposizione permettono una gestione strategica dei dati, convergente e integrata, e permettono di interpretare i flussi di dati associati alla geolocalizzazione per conoscere più a fondo i propri clienti e migliorarne la customer experience, offrendo servizi personalizzati e ottimizzati. Non a caso uno dei temi di maggiore attualità resta la customer centricity.

Già molte aziende utilizzano strumenti in grado di raccogliere dati relativi a clienti, ai loro comportamenti, abitudini e interessi. Per esempio, i percorsi di interazione degli utenti all’interno dei siti aziendali sono un’ottima fonte da cui attivare processi predittivi in grado di guidare tutta la customer experience, dal primo contatto fino alla conclusione della transazione. Questi percorsi sono una vera e propria miniera d’oro che molte aziende non conoscono o non sanno ancora come sfruttare. Qui si comprende il valore dell’impiego dei professionisti del dato: grazie all’applicazione di algoritmi di machine learning sono in grado di fornire mappatura degli interessi degli utenti e in base agli argomenti visitati hanno la possibilità di offrire sempre il miglior contenuto a ciascun utente. Il lavoro preliminare da fare è osservare e comprendere processi e comportamenti e trovare il modo migliore di quantificarli e misurarli, individuando ciò che è realmente importante per ciascuno. Per esempio: quanti clienti abbiamo? Quando effettuano acquisti? Quante sono le transazioni? Quale è l’ammontare delle loro spese? Ma per avere veramente un quadro completo, a queste informazioni, le aziende più marketing oriented ne affiancano altre: l’età, la data del loro compleanno, le preferenze, alcuni aspetti della loro personalità. Una volta individuati i dati significativi, le aziende devono iniziare a raccoglierli, governarli, proteggerli e analizzarli, il che implica la comprensione del ruolo che giocano intelligenza artificiale e machine learning, IoT e advanced analytics nella gestione dei big data.

UN PERCORSO CHIARO

Essere data driven comporta almeno due vantaggi evidenti. Innanzitutto, si ha una capacità decisionale sicuramente migliore. Incrociando diverse fonti dati – le vendite, i feedback presi sui social relativi alle campagne di marketing, gli andamenti stagionali, le informazioni socio-economiche dei quartieri dove sono i propri negozi fisici – si hanno informazioni complete e accurate. Inoltre, si possono condividere i dati tra i diversi reparti dell’azienda, così che i report aziendali lavorino su una stessa base dati, e possano fornire lo stesso quadro generale alle persone, con eventuali differenze legate soltanto ai differenti livelli di accesso. Diventare organizzazioni che si possono davvero definire data driven non è semplice anche se l’obiettivo è dichiarato da tutti: c’è bisogno di un percorso chiaro, dove fondamentale è la tecnologia digitale, con adeguati strumenti di analisi e di intelligenza artificiale, in grado di dar valore al tesoro dei Big Data nelle imprese così da sfruttare in modo efficace i dati per il processo decisionale. La data driven economy chiama in causa le nuove frontiere della business intelligence, e così diventano un pilastro strategico del business i Big Data, gli analytics, l’intelligenza artificiale, le smart app per la mobile BI, fino alle soluzioni che non richiedono nemmeno l’intervento decisionale umano, ma che grazie al machine learning eseguono azioni in base alle analisi inviate direttamente ai macchinari in azienda.

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Avere a disposizione dati corretti, freschi e rilevati con frequenza è fondamentale. Nelle aziende viene già fatta una raccolta di grandi quantità di dati, sui quali vengono svolte analisi retroattive. In un mondo che cambia così velocemente, non basta però rivolgere l’attenzione al passato, all’analisi di metriche e KPI basati su serie storiche, alla generazione di statistiche e report a consuntivo. Senza dover abbandonare il sistema della reportistica mensile e delle previsioni trimestrali, è chiaro che per imboccare la strada del successo, bisogna utilizzare i dati in modo da poter prevedere eventi che si verificheranno, e creare proiezioni e ipotesi che, grazie all’applicazione di algoritmi di machine learning, possono essere sempre più precise e veritiere: le nuove tecnologie permettono di utilizzare i dati non solo in modalità descrittiva, come nei sistemi di business intelligence, ma anche in modalità predittiva e prescrittiva, anticipando problemi e comportamenti, bisogni e tendenze. Ma qui il punto è delicato. Se i dati ci offrono la possibilità di prevedere possibili scenari futuri, le azioni da intraprendere restano sotto il dominio di chi deve decidere. Anche in questo caso, la pandemia di Covid-19 ci offre più di un esempio.

Dati, processi e policy devono avere una chiara data governance in grado di combinare insieme strategie, persone e tecnologie. Soprattutto le aziende che sentono una maggiore pressione nella creazione di valore stanno pensando a modelli di business basati sui dati. Tra i più colpiti il settore manifatturiero, esposto a una concorrenza internazionale molto sensibile ai prezzi e agli effetti del lockdown. I dati delle macchine, le informazioni di marketing o i dati delle HR, che oggi vengono accumulati in grandi quantità grazie alle tecnologie digitali, servono alle aziende data driven come base per ridisegnare i processi operativi per renderli più funzionali ed efficaci, attraverso nuovi modelli, nuovi prodotti e nuovi approcci organizzativi. L’obiettivo di ogni manager è poter trasformare i dati in smart data, ovvero in informazioni strategiche a supporto del business: i dati sono quindi un fattore fondamentale per ottenere vantaggio competitivo se riescono a innescare un processo di miglioramento continuo. Non solo. I CEO e i manager hanno bisogno di informazioni che li aiutino a capire cosa riserva loro il futuro. Le aziende devono chiedersi come ripartire subito. Se cambia il profilo di acquisto dei propri clienti, allora devono essere pronte ad adeguarsi rapidamente: le aziende devono scoprire quindi come i loro dati possono essere utilizzati per gestire questo cambiamento.

GOVERNANCE E ARCHITETTURA

Grazie alla digitalizzazione sono aumentati quantità, varietà e disponibilità dei dati: la loro raccolta avviene in tempi relativamente brevi, spesso in tempo reale. L’analisi dei dati, invece, può avvenire anche a distanza di tempo, perché le analisi possono essere molteplici, fatte da diversi reparti aziendali, ognuno dei quali può trovare risposta alle proprie domande e identificare nuove relazioni e significatività all’interno della base dati comune. Ma sempre più spesso, l’esigenza è di avere analisi on the edge.

Grazie ai nuovi strumenti è possibile studiare non soltanto quello che abbiamo sotto i nostri occhi ma anche quello che non vediamo. La predictive maintenance consente alle aziende di prevedere gli interventi di manutenzione alle macchine sulla base dei dati di misura e di produzione raccolti in tempo reale grazie all’industria 4.0, e di agire in modo proattivo. Altri esempi significativi si possono trovare nelle transazioni finanziarie, dove l’analisi dei dati serve a individuare le frodi o nell’area marketing, dove è necessario anticipare i comportamenti del consumatore conoscendo i suoi gusti.

Rendere accessibili i dati è la chiave per abbattere le barriere e diventare data driven. In questo modo, tutti potranno beneficiare di dati affidabili, unificati e costruiti attorno e sulla base di un vocabolario comune: il data engineer che assembla e trasforma dati per le analisi; e il data scientist che costruisce poi il modello (nelle realtà più piccole, talvolta questi due ruoli sono svolti dalla stessa persona). La data governance, ovvero le regole e le politiche che prescrivono il modo in cui le organizzazioni proteggono e gestiscono i loro dati e le loro analisi, è fondamentale per imparare a fidarsi dei dati e a guidare gli utenti nel loro sfruttamento. Secondo molti analisti, un terzo delle organizzazioni non governa affatto i propri dati. Per questo è necessario un approccio univoco, come segnala Mike Ferguson, managing director di Intelligent Business Strategies, analista e consulente specializzato in business intelligence ed enterprise business integration: «L’aspirazione dei manager è di voler diventare data driven, vogliono cioè che il loro business sia guidato dagli insights derivanti dall’analisi dei dati. Tuttavia, in molte aziende, si registra un eccesso di tecnologia, di silos ma nessuna condivisione di metadati. Per diventare data driven, le aziende dovrebbero progettare prima l’architettura dati, fornire il valore di business di cui hanno bisogno, e poi scegliere le tecnologie che possono operare insieme, per dare vita a un’architettura dati end-to-end. Le aziende devono anche stabilire un vocabolario di business condiviso di nomi e definizioni di dati per entità di dati logici. Questo è fondamentale non solo per essere in grado di costruire, fidarsi, condividere prodotti di dati riutilizzabili, ma anche per aiutare le persone a capire cosa significano i dati».

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RIDISEGNARE L’ORGANIZZAZIONE

Le aziende data driven devono prevedere un percorso di change management in grado di portare la cultura del dato a tutti i livelli aziendali. La cultura si crea con l’utilizzo dei dati da parte delle persone: se le persone non comprendono come si debba lavorare con i dati, non saranno nemmeno in grado di prendere decisioni basate sui dati, anche utilizzando la migliore tecnologia e mettendo a punto i migliori processi. È necessario che l’intero team di lavoro sia allineato su questo asse strategico, ed è anche importante creare e mantenere una piattaforma unica e coerente che supporti l’analisi e la collaborazione, e renda più facile per le persone svolgere il proprio lavoro. Inoltre, è fondamentale definire una strategia data driven che sia orientata al futuro, con un approccio che coinvolga l’intera organizzazione verso un obiettivo comune. Le aziende data driven di successo promuovono una cultura collaborativa e orientata ai risultati, dove la strategia di gestione dei dati copre l’intero ciclo di vita dell’analisi e l’intera organizzazione aziendale.

In queste realtà, i team leader sono i primi ad aver fiducia nelle potenzialità nei dati. I CIO garantiscono l’infrastruttura per una solida qualità dei dati, analisi complete, accessibili e utilizzabili da più persone. Lo sforzo congiunto dei responsabili aziendali (top management e responsabili di BU) è volto a costruire relazioni che supportino la collaborazione: se i team IT e le risorse delle BU aziendali non cooperassero proficuamente tra loro, l’intera organizzazione non potrebbe operare in modo data driven. Bisogna tenere anche conto che la maggior parte dei problemi aziendali sono talmente complessi e interconnessi da richiedere analisi sui dati che spesso riguardano più settori aziendali, e quindi questo facilita la collaborazione tra team differenti. Quindi è indispensabile eliminare le barriere tra i gruppi e definire chiaramente ruoli e responsabilità con obiettivi condivisi tra i dipartimenti per incoraggiare il lavoro di squadra. Qui entra in gioco il top management nel ridisegnare l’organizzazione. La collaborazione, per certi versi, è impegnativa, occorre una capacità empatica: spesso i responsabili delle decisioni aziendali pensano che le persone dell’IT non capiscano l’importanza di avere risultati rapidi e, dall’altra parte, le persone dell’IT pensano che il Business non comprenda le priorità di gestione dei dati. Alla luce di questo, si può perfino concludere che un buon utilizzo dei dati può addirittura essere uno strumento per migliorare l’organizzazione aziendale oltre a migliorare le prestazioni e facilitare e velocizzare l’innovazione. Le pratiche di governance dei dati devono evolversi a mano a mano che sempre più persone all’interno di un’organizzazione accedono ai dati e creano modelli, o quando vengono inseriti nuovi tipi di dati o nuove tecnologie. La chiave per una solida governance nelle organizzazioni data driven sarà la capacità di coinvolgere tutte le parti interessate, supportando i diversi profili utenti e i loro diversi ruoli, con un’interfaccia comune e un’infrastruttura dati sempre unificata.

SKILLS E CULTURA DEI DATI

Il giusto modello di data governance crea una unica base dati, che deve essere considerata una sorta di fonte di verità per l’intera organizzazione, dove le informazioni derivate dai dati non siano riservate a un singolo reparto, ma condivise tra tutta l’organizzazione, con un accesso ampio e sicuro per tutti. Le tecnologie a disposizione sono tante, ma sono ancora le persone ad avere la prevalenza sui dati, perché sono loro che decidono come utilizzarli. Per le aziende, il valore si crea con l’intervento della competenza e dell’esperienza nel guidare al meglio approcci automatizzati e basati su algoritmi. Trovare profili professionali con le giuste competenze e capacità è ancora complicato, nonostante gli sforzi degli ultimi anni per colmare il gap tra domanda e offerta.

Questo è un bisogno sentito non solamente dalle grandi aziende, ma anche dalle tante imprese innovative, con dimensioni inferiori, che vogliono sfruttare al meglio le informazioni nascoste nel volume di dati che producono o che riescono a reperire ogni giorno. Oltre alla mancanza di cultura dei dati di cui abbiamo già parlato, un limite alla crescita delle aziende data driven è proprio la mancanza di analisti specializzati. Ma c’è anche un altro risvolto. Una volta individuate le figure adatte, però, non sempre le aziende riescono a sfruttare al meglio le loro capacità: non è sufficiente avere tali professionisti all’interno della propria azienda, è necessario consentire loro di relazionarsi con gli utenti e con le figure decisionali per riuscire a comprendere le linee del business e a coordinarsi con tutti i dipartimenti. Anzi, è proprio grazie al lavoro di questi professionisti che risulta più facile allineare i diversi team, integrando le attività sui dati all’interno delle diverse attività quotidiane. Così si riesce a evitare i tipici ostacoli per diventare una data driven company: l’incomprensibilità dei dati, l’incapacità di tradurli in azioni e la difficoltà di trasformarli in insights dinamici. Risorse tecnologiche, umane e di architettura sono la base per sviluppare la giusta cultura dei dati, senza la quale non può aver successo nessuna data driven strategy