Asset della continuità operativa, il lavoro agile ha permesso all’Italia in emergenza di portare avanti il business. Tra opportunità di crescita e nuovi rischi di sicurezza, lo smart working cambia la cultura del lavoro. Ecco le soluzioni per farlo meglio

Smart working è senza dubbio una delle parole chiave del 2020. Le misure globali di distanziamento sociale, conseguenza diretta per il contenimento del coronavirus, hanno accelerato repentinamente l’adozione di soluzioni di lavoro agile, per aziende più o meno preparate. Solo in Italia, il ricorso a tale modalità lavorativa, che a fine 2019 ha coinvolto oltre mezzo milione di persone, ha visto raggiungere cifre del 20% in più per decine di migliaia di individui “incentivati” ad assumere i contorni dello smart worker. Per di più, il trend ha interessato vari settori, ossia tutti quelli in cui la manodopera non era un’esigenza inderogabile. Certo, il boom dello smart working ha anche amplificato alcune problematiche, che nell’Italia del nuovo millennio sono finalmente divenute fondamentali, anche per l’opinione pubblica. Tra queste: la solidità della rete internet, non poche volte in difficoltà per le troppe connessioni; la sicurezza delle reti; l’utilità delle VPN e dei software di collaboration; delle piattaforme in grado di minimizzare l’assenza di riunioni fisiche, a vantaggio della concretezza e dell’operatività. Istituzioni e aziende di tutto il mondo hanno tentato, e tentano ancora, di convalidare quelle buone pratiche che il settore IT professa da decenni, così da supportare il cambiamento con il minor rischio possibile. Del resto, il crimine informatico ha già mostrato di poter approfittare della situazione per ingannare e violare i dispositivi di dipendenti e collaboratori, all’improvviso immessi in un network casalingo non di rado privo delle più basilari forme di protezione digitale.

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Durante l’emergenza Covid-19, la “certificazione” dello smart working per decreto, come modalità per limitare i contatti umani e quindi la diffusione dei contagi, ha segnato una vera rivoluzione alla quale tutti ci siamo dovuti abituare. Per questo, i numeri dello smart working in Italia aumenteranno sensibilmente, rispetto a quelli diffusi dal più recente rapporto Eurostat di febbraio. Secondo i dati, i lavoratori italiani che hanno beneficiato dello smart working (in primis, manager e quadri, professionisti, tecnici e impiegati d’ufficio) sono 8 milioni 359mila. Nel 2019, la percentuale di grandi imprese che ha avviato al suo interno progetti di smart working è stata del 58%, in crescita rispetto al 56% del 2018. E con risultati positivi sul rapporto dei dipendenti con il proprio impiego: con l’introduzione del lavoro da remoto e flessibile, il 76% si è detto soddisfatto della propria professione, contro il 55% dei dipendenti che non ne possono beneficiare. Uno su tre si sente pienamente coinvolto nella realtà in cui opera e ne condivide valori, obiettivi e priorità, contro il 21% dei colleghi esenti dallo smart working.

Insomma, cifre ragguardevoli ma molto diverse rispetto a quelle di altri paesi europei. Sempre secondo l’Eurostat, nel 2018, l’11,6% dei lavoratori europei alle dipendenze d’imprese o organizzazioni pubbliche praticava smart working, lavorando da casa saltuariamente (8,7%) o stabilmente (2,9%), grazie alle opportunità messe a disposizione dalle nuove tecnologie. In Italia la percentuale si ferma al 3,6%, risultando non solo la più bassa d’Europa (poco sopra Cipro, Romania e Bulgaria), ma anche la più distante da paesi come il Regno Unito (20,2%), la Francia (16,6%) o la Germania (8,6%), che pure hanno ampliato la quota del lavoro agile a causa del Covid-19. Per non parlare di quelli del Nord Europa, dove la fetta di lavoratori che possono lavorare da casa anche con flessibilità oraria sale al 31% in Svezia, al 27% in Islanda e Lussemburgo, al 25% in Danimarca e Finlandia. Per questi paesi, lo smart working si pone come una soluzione particolarmente vantaggiosa, anche se non del tutto sfruttata.

Secondo le stime della società mantovana Variazioni, che si occupa di work-life balance e change management, un’impresa con 100 dipendenti che applica lo smart working per tre giorni al mese, può risparmiare oltre 200mila euro all’anno tra buoni pasto, indennità di trasferta e altro. Un guadagno non indifferente, che il datore di lavoro potrebbe investire in altro. Un risparmio misurato anche in termini di chilometri (2.400) e impatto ambientale (270 kg di CO2). Ma se lo smart working sembra portare con sé solo risvolti positivi, allora perché la sua adozione in Italia è stata così lenta?

LA CULTURA DEL LAVORO AGILE

Come ci spiega Diego Pandolfi, research and consulting manager di IDC Italia, negli ultimi anni in Italia, lo smart working è stata una prerogativa soprattutto delle aziende di maggiori dimensioni, che hanno intrapreso progetti di agilità lavorativa, ridisegno e riprogettazione di sedi e uffici. «L’emergenza legata al Covid-19 ha senza dubbio accelerato un processo che era già in corso ma che avrebbe impiegato anni, forse decenni, per assumere le dimensioni attuali». E questo perché – continua Pandolfi – lo smart working in molte aziende era interpretato prima di tutto come possibilità per i dipendenti di svolgere il lavoro da remoto, limitandosi però ad alcuni giorni al mese o alla settimana». Dalle rilevazioni di IDC, condotte in Italia nel 2019 e quindi prima dell’emergenza Covid-19, emergeva che mentre oltre il 50% delle grandi imprese aveva adottato iniziative di smart working, nelle piccole realtà e nelle microimprese questa percentuale era inferiore al 30%. I dati evidenziano l’esistenza nel nostro Paese di alcune differenze strutturali importanti: «Le iniziative di lavoro agile trovavano un terreno più fertile nelle realtà di maggiori dimensioni, le quali probabilmente hanno approcciato la tematica prima delle altre, grazie anche a una cultura diversa del top management, incentivata dalla possibilità di ridurre alcuni costi fissi, come quelli relativi agli affitti degli uffici e degli spazi fisici. La situazione di emergenza ha spinto invece nel 2020 anche le medie e le piccole imprese ad abilitare il lavoro da remoto e le ha forzate ad abbracciare questo approccio a “tempo pieno” e non più riferito solo ad alcuni giorni alla settimana».

Tutto questo non senza evidenti difficoltà. Innanzitutto tecnologiche – spiega Pandolfi. «Infatti, per intraprendere in maniera efficiente delle iniziative di questo tipo, le aziende avrebbero già dovuto fornire ai propri dipendenti dei dispositivi adeguati – computer portatili e device mobili – per abilitare l’accesso da remoto alle risorse aziendali, in totale sicurezza. Le aziende che non avevano previsto quindi investimenti di questo tipo, unitamente a iniziative di connettività adeguata, cloud computing e sicurezza, si sono sicuramente dovute scontrare con problemi rilevanti, che hanno impedito – almeno inizialmente – di abilitare il lavoro da remoto». In secondo luogo, il fattore culturale ha giocato un ruolo importante: «La poca fiducia e la scarsa preparazione da parte dei datori di lavoro o dei proprietari delle aziende, non hanno contribuito positivamente a una risposta immediata. Inoltre, a questo fattore si sono associate le difficoltà dei dipendenti non abituati a lavorare da casa o con poca dimestichezza con l’utilizzo di strumenti tecnologici – per esempio, sistemi di videoconferenza, piattaforme di collaboration – i quali hanno faticato a tenere il passo con i nuovi ritmi e a conciliarli con la vita domestica. Infine, da non sottovalutare, anche le difficoltà legate alla carenza di budget da dedicare agli investimenti tecnologici abilitanti, se non effettuati in precedenza».

Fin dalle prime fasi dell’epidemia di Covid-19, si è vista una forte accelerazione del processo di adozione dello smart working anche da parte dei più reticenti, al fine di garantire la propria continuità operativa – concorda Paolo Ronzani, sales director di Axians Sirecom. «Chi non aveva ancora attuato la propria digital transformation si è dovuto scontrare con una serie di difficoltà, come la necessità di ridefinire in tempi rapidi i loro processi operativi in chiave digitale. Hanno dovuto inoltre dotarsi di strumenti e piattaforme di collaboration pensate per il lavoro agile, in un contesto di bassa disponibilità presso i fornitori, e lunghi tempi di consegna. Urgente, è stato poi formare il proprio personale affinché fosse in grado di utilizzare i nuovi strumenti, operando e comunicando come mai prima».

Quanto osservato negli ultimi mesi ha portato a considerare che l’emergenza sanitaria ha stravolto il mondo del lavoro, anche nei suoi risvolti più nascosti. La cultura dello smart working, da sempre molto frammentata in Italia, necessita adesso di una maggiore linearità di esecuzione. Secondo Davide Raggi, product manager IT Services di Konica Minolta – resistenze e vincoli di ordine culturale, organizzativo e tecnologico hanno frenato per anni il propagarsi di un modello che ora risulta essere vincente. «Sicuramente dopo questa corsa frenetica verso tante soluzioni, assisteremo a una vera e propria accelerazione a modelli più strutturati e consapevoli di lavoro agile. Come gruppo, già da un paio d’anni, abbiamo introdotto lo smart working per i dipendenti, con la possibilità di lavorare un giorno a scelta da casa e quindi, quando è iniziata questa crisi, eravamo già preparati in termini di tecnologie, sicurezza, modelli di lavoro e mentalità». Del resto, lo smart working non è solo telelavoro – spiega Federico Carozzi, head of product marketing di Lenovo Italia. «L’emergenza ne ha sicuramente accelerato i processi di adozione, che diverse aziende avevano già cominciato a ridisegnare, partendo dalla ricerca di nuovi spazi e passando per investimenti in tecnologia, così da rispondere a una sempre maggiore esigenza di mobilità e coworking». L’adeguamento del parco tecnologico è stata una sfida importante. Secondo uno studio che Lenovo ha realizzato recentemente, il 71% delle PMI utilizza ancora i desktop come dispositivi principali e un 74% dei dipendenti non ha accesso a strumenti basati su cloud né ha la possibilità di scegliere le tecnologie più adatte per svolgere il proprio compito.

«Gli ultimi mesi hanno confermato che le emergenze spesso funzionano da attivatori di trasformazioni, nello specifico digitali» – afferma Danilo Piatti, amministratore delegato di Mitel Italia. «Adesso, occorre agire sulla transizione verso la nuova normalità, ma per farlo è necessario lavorare su tre direttrici: culturale, tecnologica e normativa. Inizialmente, molte aziende hanno percepito un rischio di perdita di produttività. Superata la fase di adattamento alle nuove modalità e strumenti a supporto, è emerso che in molti casi è possibile gestire meglio tempi e agende, limitando l’impatto ad alcune attività tecnico-specialistiche».

RIVOLUZIONE TRASVERSALE

Si è trattato non solo di cambiare un approccio tradizionale al lavoro, ma anche di semplificare procedure ed eliminare colli di bottiglia. «Le aziende con i loro reparti IT hanno dovuto ovviare con urgenza alla fornitura di tanti requisiti e i team di lavoro hanno dovuto superare difficoltà collegate alla pianificazione di meeting e attività» – sottolinea Gianluca Acciarri, account manager di Metisoft. «Tant’è vero che il processo è stato forzato e non ha garantito un approccio omogeneo e strutturato al vero e proprio smart working». Peculiare è l’esperienza di NFON Italia, che ha visto nel Covid-19 un abilitatore, volendo considerare un aspetto positivo della pandemia, del lavoro flessibile “democratico”, una sorta di livella che ha parificato le opportunità di sviluppo. «L’emergenza ha sicuramente accelerato il processo di adozione dello smart working, per quanto in realtà si dovrebbe parlare più di politica di home working» – afferma Marco Pasculli, managing director di NFON Italia. «Il lavoro “intelligente” è un processo che tocca tutte le funzioni aziendali e porta a nuovi assetti interni, oltre all’adozione di tecnologie specifiche, partendo da strumenti fisici quali laptop o cuffie, arrivando a software di condivisione o fruizione di informazioni e alle soluzioni in cloud. NFON, occupandosi di piattaforme di telefonia aziendali sulla nuvola, riconosce che il tasso di penetrazione di questa tecnologia in Italia si attesta sotto il quattro per cento. Cloudya, il nostro centralino in cloud, permette alle aziende di essere sempre operative, in quanto i dipendenti sono reperibili ai numeri fissi aziendali anche da casa, comodamente dal loro smartphone o PC. Inoltre, anche il canone mensile modulabile in base al reale consumo e utilizzo, consente di beneficiare delle modalità pay-per-use».

In generale, i benefici di un centralino in cloud sono molteplici: «La possibilità di ridurre gli spazi degli uffici, non avendo tutti in sede tutti i giorni; l’evitare costi fissi di manutenzione di hardware e avere supporto da remoto in caso di malfunzionamenti; l’attivazione di linee telefoniche secondo le proprie necessità. Ma non solo: ci sono soluzioni che integrano il centralino con i software gestionali usati in azienda, come NCTI Pro, così che ciascuno abbia sempre un quadro completo e preciso dell’utente che si mette in contatto telefonico. Di fatto, il Covid-19 ha dato la possibilità a tante tecnologie nate ed evolute negli ultimi tempi di emergere, farsi conoscere, perché questo rallentamento generale ha portato le aziende a “informarsi” e prendersi il tempo necessario per comprendere, studiare e valutare le soluzioni adatte alle proprie esigenze. Confidiamo nel fatto che questo sia solo il primo passo verso un cambiamento che ora più che mai è diventato inevitabile».

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Se tra le varie aziende operanti in tanti settori, quelle con all’interno un minimo di reparto IT sono state facilitate dallo switch digitale del business, per altre forse il vero e proprio smart working non è mai iniziato. Questa è l’idea di Fabio Albanini, head of international sales EMEA and managing director Italy di Snom Technology. Con le dovute eccezioni e col rischio di essere una voce fuori dal coro – secondo Albanini – l’attuale telelavoro ha ben poco di “smart”. Spesso adottato in carenza di infrastrutture e dotazioni tecniche adeguate – le modalità attuali di lavoro remoto hanno obbligato gli utenti a rendere noti recapiti personali, a utilizzare dispositivi privati, contesi tra i familiari, risultando persino deleterio per l’equilibrio tra vita privata e lavorativa, la cui preservazione – sottolinea Albanini – «è invece uno dei principali obiettivi del vero smart working, quello propugnato dall’intero settore informatico».

Per superare questi limiti – continua Albanini – occorre adottare “espedienti” per far fronte in qualche modo a esigenze mai emerse in precedenza. «Raccomandiamo alle imprese di valutare nuove infrastrutture per le telecomunicazioni, i cui vantaggi in termini di produttività vanno ben oltre il mero risparmio sui costi operativi. Tutte le piattaforme che consentono alle aziende di tutelare la continuità dei propri processi e servizi, indipendentemente da dove si trovi l’addetto, sono un beneficio ma solo se vantano dei requisiti particolari, come il non dover riconfigurare l’intera infrastruttura ai fini della “remotizzazione” delle attività. Nel ramo della telefonia IP, parliamo di soluzioni che garantiscano la più totale flessibilità di impiego degli strumenti per le telecomunicazioni e terminali sicuri, cablati o cordless, che gli utenti possano persino portare a casa dall’ufficio per mutate esigenze lavorative o per condizioni che richiedano di operare da casa senza soluzione di continuità. Se il telelavoro dovesse davvero entrare a tutti gli effetti come modello operativo aziendale però, occorrerà che le telco si adoperino per garantirlo. Anche perché nei mesi scorsi abbiamo visto un notevole incremento della domanda per i telefoni IP e i sistemi di conferenza “portatili”. Che sia l’inizio del BYCD?».

UNA RETE DA CONSOLIDARE

Nelle settimane di lockdown, quasi a sorpresa, si è parlato poco di instabilità della rete Internet nostrana. Laddove le connessioni hanno raggiunto qualità e velocità idonee a sostenere carichi di lavoro, le persone hanno assistito a rallentamenti più o meno rari, quasi mai gravosi dal punto di vista della produttività. In zone dell’Italia dove invece il digital divide si fa ancora sentire, tutto è risultato molto più difficile per l’accesso a piattaforme sia di lavoro che di studio. Considerando che il trend dello smart working, oggi più che mai, non si esaurirà nel medio termine, ci sono delle tecnologie che promettono di dimenticare per sempre le incongruenze nelle connessioni lungo la Penisola. Il 5G è sicuramente una grande opportunità.

Nella Fase 2 molte imprese italiane, dopo averla sperimentata nella chiusura forzata, stanno guardando alla connettività di rete fissa e mobile come a un bene indispensabile per la sopravvivenza. Tuttavia l’estensione della copertura territoriale in fibra prevista dal Piano BUL e i piani di lancio del 5G degli operatori non saranno sufficienti nell’immediato a rispondere alla domanda di ripresa – come spiega Daniela Rao, senior research and consulting director di IDC Italia. «Nei prossimi due o tre anni, per portare i servizi broadband a tutti, le reti fisse ultra-broadband e le mobili 4G e 5G coesisteranno, diventando complementari una dell’altra, per garantire continuità e affidabilità su porzioni di territorio sempre più ampie. In questo contesto, vedremo svilupparsi i servizi FWA (fixed wireless access), che utilizzano la tecnologia radio per portare la banda larga, dove la fibra non arriva o non è un investimento percorribile. Infatti, nelle aree non ancora coperte da infrastrutture che permettono connessioni a un gigabit/secondo in download, la complementarietà tra mobile e FWA avrà un ruolo cruciale, coniugando la performance di rete della fibra, con la facilità di installazione delle reti mobili nei centri urbani di piccole e medie dimensioni. Il 5G, avendo l’obiettivo di fornire capacità da 10 a 100 volte superiori il 4G – continua Daniela Rao – potrà abilitare FWA più performanti, in grado di fornire ai clienti più bassa latenza e maggiore capacità, permettendo una estesa “inclusione digitale” di cittadini e microimprese sinora svantaggiati dalla localizzazione. Il 5G occuperà un ruolo sempre più centrale nello sviluppo dello smart working, eliminando progressivamente la differenza tra l’essere collegati in rete all’interno di uno specifico ambiente o fuori ufficio, in movimento. Inoltre, fornendo alle aziende servizi di connettività mobile ultraveloce e capillare, diventerà il catalizzatore dei processi di innovazione basati sull’estensione del dialogo uomo-macchine-oggetti connessi e sulla capacità di elaborare dati da molteplici fonti e device distribuiti sul territorio».

Il 5G abiliterà una maggiore agilità nei processi aziendali offrendo alle persone una libertà di movimento senza precedenti. «Sarà però fondamentale per i responsabili IT delle PMI – avverte Federico Carozzi di Lenovo Italia – investire in dispositivi mobili e portatili e in tecnologie di smart office per migliorare l’esperienza lavorativa. La combinazione di 5G ed edge computing cambierà ulteriormente le regole delle prestazioni di rete a cui siamo attualmente abituati». Non solo. Per Danilo Piatti di Mitel Italia, il 5G favorirà – «il reale salto di qualità, con le applicazioni che dovranno essere pronte per sfruttarne appieno le potenzialità». Uno scenario che – secondo Davide Raggi di Konica Minolta – si tradurrà in modelli di lavoro interoperabili e finalmente coesistenti. «Il mobile working, lo smart working e, in generale, tutte le modalità agili possono considerarsi efficienti se supportate da un ecosistema completo di prodotti e soluzioni». Konica Minolta risponde alle esigenze dei clienti con un portafoglio completo di servizi IT gestiti e soluzioni necessarie per rendere efficace e sicuro il lavoro da remoto. «Con Workplace Hub, la nostra soluzione scalabile di servizi IT – continua Raggi – le imprese hanno la possibilità di uniformare la tecnologia aziendale grazie a una piattaforma centralizzata capace di agevolare la collaborazione e il lavoro di squadra. E ancora, con l’applicazione di collaboration Workplace Go è possibile semplificare la condivisione dei progetti e l’accesso alle informazioni aziendali da qualsiasi luogo e in qualsiasi momento. Comunicazione, interazione, produttività, creatività e networking vengono così semplificati in un colpo solo».

IL FUTURO, TRA 5G E CYBERSECURITY

Se per Metisoft, il digital divide impedisce ancora a diversi utenti di utilizzare al meglio gli strumenti di videoconferenza e collaborazione e il 5G rappresenta un traguardo ancora lontano, c’è la necessità di porre una concreta attenzione ai temi della cybersecurity. Il contesto della sicurezza, seppur già in cima alle voci di investimento IT, ha avuto un grande incremento di interesse. Anche perché la grande maggioranza dei collegamenti e dei dati professionali vengono veicolati all’esterno delle reti. Per questo c’è chi, come Daman, riporta il discorso dalla tecnologia all’accesso dei dati, adesso più disponibili che mai e passibili di furto o perdita. «Il ricorso rapido e massivo allo smart working per gran parte della forza lavoro ha messo in evidenza alcune criticità soprattutto sul piano della sicurezza ICT» – spiega Roberto Marzocca, direttore tecnico di Gruppo Daman. «Nella fase iniziale, la principale preoccupazione delle organizzazioni è stata quella di garantire l’accesso alle proprie applicazioni, soprattutto con l’intento di mitigare al massimo la perdita di produttività, penalizzando spesso la capacità difensiva dell’organizzazione in ambito cybersecurity». Uno di questi scenari è relativo all’accesso remoto degli amministratori di sistema, che svolgono attività che, per loro natura, richiedono elevati standard di sicurezza. «Tali standard – continua Marzocca – possono essere mantenuti anche in modalità smart working, utilizzando la soluzione BeyondTrust Privileged Remote Access, che consente l’accesso ai server e agli apparati da gestire, senza la necessità di effettuare cambiamenti sostanziali alle configurazioni di rete, di aprire porte TCP o di utilizzare VPN. Anche l’ingresso nei sistemi da parte di vendor e terze parti deve sottostare, per la tipologia di lavoro richiesto, agli opportuni criteri di sicurezza e tracciamento. Tutte le attività svolte da remoto con BeyondTrust Privileged sono controllate da workflow approvativi e finalizzate a precisi interventi e a durate stabilite».

Anche per Paolo Ronzani di Axians Sirecom, c’è il rischio che, rientrata l’emergenza, il livello di attenzione alla sicurezza cali. «Ci sono sondaggi che evidenziano come la maggioranza dei dipendenti non abbia ancora ricevuto una formazione specifica di cybersecurity. Parallelamente, sono aumentati fenomeni quali il phishing, che sfrutta proprio il Covid-19. Le aziende, oltre alla messa in sicurezza degli accessi alla loro rete, dovrebbero aumentare la capacità di rilevamento delle anomalie e la resilienza alle minacce, mediante azioni di assessment della conoscenza, attacchi simulati e formazione specifica. Parallelamente, dovrebbero implementare piattaforme per la protezione del dato, mediante tecnologie basate su encryption».

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Per Piatti di Mitel, un ruolo chiave sarà quello dei chief information officer: «Crediamo che la sicurezza sia il vero spartiacque, l’elemento qualificante delle soluzioni enterprise. La sfida dei CIO sarà selezionare piattaforme capaci di garantire standard elevati non solo in ufficio o a casa ma ovunque, con un livello di complessità superiore rispetto a quello del tradizionale telelavoro. A livello produttivo, il modello ibrido sarà la scelta più frequente, per garantire il giusto mix tra smart working e presenza onsite».

Insomma, è urgente assumere una visione olistica del concetto di smart working, per non perdere di vista i rischi connessi. «In qualità di vendor – spiega Jacopo Bruni, marketing manager di Praim – quello che ci tocca più da vicino è la gestione degli endpoint, perché il rischio di perdere il controllo dei dispositivi aziendali è alto. Adottare soluzioni di gestione centralizzata efficienti, performanti e semplici da implementare rappresenta uno degli obiettivi». Il consiglio di Bruni è di guardare la situazione da tutti i punti di vista: «Interessarsi alla parte di sicurezza, specie quella del dato, che risulta essere anche l’effort più costoso del processo; aggiornare i propri strumenti di backup e di continuità di business; configurare VPN adeguate; fornire ai collaboratori strumenti familiari, per poter continuare senza troppo sforzo il proprio lavoro, visto che già il cambio di prospettiva richiede un certo sforzo». Secondo Bruni, l’adozione dello smart working rappresenta oggi – «un punto di svolta importante per differenziarsi e per fare in modo di migliorare non solo il lavoro in sé, ma soprattutto l’efficienza di ogni collaboratore».

Il coinvolgimento dei dipendenti nella progettazione di soluzioni per le diverse esigenze di collaborazione rappresenta un altro punto chiave perché permette di portare – spiega Carozzi di Lenovo – «vantaggi reali per il business e le aziende, favorendo un’esperienza di lavoro positiva e incentivando una maggiore flessibilità all’interno dell’ambiente di lavoro». Ma è necessario un cambiamento sostanziale nel modo di operare delle aziende, rafforzando il lavoro da remoto – continua Carozzi – «con soluzioni di virtualizzazione client dal desktop al data center che consentano maggiore semplicità di amministrazione, supporto e gestione dei desktop per consentire agli utenti di lavorare ovunque». Lo smart working si basa su tre elementi: «Privacy e sicurezza, produttività e lavoro in team. Alla prima esigenza rispondiamo con ThinkShield. Per una maggiore produttività, abbiamo introdotto nuove funzionalità e form factor. Se pensiamo al lavoro in team, guardiamo alle ultime novità della famiglia ThinkSmart, per trasformare la comunicazione sia a livello individuale che di gruppo».

LA NUOVA DIMENSIONE DEL LAVORO

Se l’emergenza può essere un acceleratore, l’applicazione corretta di policy di smart working deve seguire un percorso omogeneo in grado di contemplare dapprima l’adozione di tecnologie adeguate e messe in sicurezza e subito dopo il passaggio a un vero e proprio smart working, i cui vantaggi possano essere sfruttati per innovare i modelli organizzativi delle aziende, oltre la contingenza di questi mesi. Tornando al tema security – come ci spiega Marco Misitano, membro del comitato direttivo di CLUSIT – molte realtà si sono ritrovate a “telelavorare” quasi da un giorno all’altro. E tutti conosciamo il proverbio della gatta frettolosa che fece i gattini ciechi. «Non ne faccio una questione di aziende più o meno virtuose – afferma Misitano – ma vale la pena constatare che in poche settimane si è realizzato un cambio radicale che avrebbe richiesto anni. In questo contesto, il timore è l’aumento della superficie di attacco dovuto alla remotizzazione di dispositivi e servizi. Un esempio su tutti: è stato registrato un incremento di attacchi a servizi RDP esposti su internet (RDP è il protocollo di accesso remoto di Windows). E ciò è accaduto perché per far fronte alla necessità di utilizzo delle risorse aziendali da remoto, molti server sono stati resi accessibili su Internet via RDP, privilegiando un accesso remoto tout-court rispetto a un accesso remoto sicuro. Discorso analogo per quei PC che, durante il telelavoro, sono stabilmente connessi su reti casalinghe gestite da privati, che difficilmente offrono lo stesso livello di sicurezza e gestione di un network aziendale».

Inoltre, non è sempre corretto parlare di smart working al posto di telelavoro. Non a caso, i principi alla base del lavoro agile quali la possibilità di alternare modalità, strumenti e posto di lavoro sono venuti meno nella fase di adozione urgente e non coordinata – mette in evidenza Acciarri di Metisoft – producendo effetti negativi sull’umore e sulla produttività dei team. «Un’introduzione progressiva e ragionata dello smart working potrà certamente migliorare la produttività e la soddisfazione dei lavoratori e contribuire alla gestione dei costi aziendali oltre che a ottimizzare l’equilibrio naturale del nostro Pianeta, riducendo emissioni di gas nocivi. Se le aziende saranno in grado di isolare gli aspetti positivi di una adozione forzata e scoordinata, alcuni aspetti potranno essere indirizzati nel migliore dei modi e le opportunità del nuovo mondo del lavoro potranno far crescere la potenzialità di chi riuscirà a farlo. La tanto auspicata digital transformation oltre che da questi aspetti passa anche per un rinnovamento culturale della classe dirigente che deve essere il volàno della rinascita delle aziende italiane».

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Quindi lo smart working può davvero essere un modo per le aziende di risparmiare su alcuni costi fissi migliorando, al contempo, la soddisfazione dei lavoratori. Mediamente, lo smart working permette una diminuzione dei costi di gestione del 30% e un aumento della produttività del 15% – come ci spiega Giada Franceschetti, junior controller di Holonix. Il lavoro da remoto, abilitando l’autoaffermazione di una cultura del lavoro orientata agli obiettivi e ai risultati, genera un aumento dell’engagement, una maggiore motivazione e soddisfazione. Ma è fondamentale un cambio di management, in grado di spostare la valutazione del lavoratore dalla presenza al risultato. «Ogni smart worker – continua Giada Franceschetti – deve essere dotato di adeguati strumenti tecnologici e le imprese dovranno predisporre efficienti e continui sistemi di comunicazione, dalla classica email e instant messaging alle videoconference per sessioni di brainstorming. Per mantenere competitività, è questo il momento di elaborare e testare progetti strutturati di smart working e investimenti digitali. E sarà vitale prestare particolare attenzione al tema della formazione continua, per favorire lo sviluppo di nuove competenze e conoscenze».

Ancora una volta, cultura dei risultati, engagement e competenza sono elementi chiave per il successo di progetti di smart working. Il requisito della “semplicità” resta centrale. «È fondamentale per le aziende avere una piattaforma semplice, scalabile, trasparente e performante, che permetta agli utenti di sentirsi perfettamente integrati ai processi aziendali» – afferma Luca Gottardi, country manager di Pulse Secure. «Oggi, viviamo in un mondo IT misto (cloud, fisico e ibrido) ed è il motivo per cui, come azienda, garantiamo un accesso sicuro alla rete aziendale in maniera integrata e totalmente trasparente, adeguandoci alle esigenze del cliente. Con tali presupposti, ci aspettiamo un importante consolidamento verso modalità di smart working anche da parte dei soggetti meno innovatori, considerando che il lavoro agile sarà sempre più comune nel panorama italiano».

IL LAVORATORE SMART

Un panorama che, come anticipato, è fatto non solo di tecnologie, hardware e software, ma anche di competenze. Secondo IDC, nel prossimo futuro, assisteremo a una maggiore collaborazione tra esseri umani e computer, con la necessità di avere nuove competenze ed esperienze integrate, in spazi e luoghi di lavoro sempre più virtuali e flessibili. In base alle previsioni di IDC, già dal 2021 il contributo dei lavoratori digitali aumenterà del 35%, proprio grazie all’automazione di determinate attività e a tecnologie come l’intelligenza artificiale, la robotica, realtà virtuale e aumentata e l’intelligent process automation.

Ma non solo: servirà maggiore autonomia, consapevolezza, destrezza nella comunicazione e capacità organizzative. Nell’ottica di Dario Vemagi, CEO e CTO di Smeup ICS – Gruppo Sme.UP – gli operatori del settore IT dovranno gestire problematiche complesse in team distribuiti, aumentando la capacità di condividere le informazioni. «Questo è il punto cruciale di tutto il processo di trasformazione digitale. Le imprese italiane soffrono di un ritardo sia culturale che organizzativo» – spiega Vemagi. «L’impatto del Covid-19 è stato improvviso e non ha permesso di intraprendere in tempo azioni efficaci, si è solo corso ai ripari. Gli strumenti per affrontare un percorso solido ci sono. E saranno le imprese con le idee più chiare, le governance ordinate e capaci di cambiare, a emergere in futuro. La trasformazione digitale non sostituisce le competenze attuali ma le amplifica, rendendole essenziali».

Con il passare del tempo, assisteremo a una progressiva integrazione tra i reparti HR e ICT delle imprese, tale da creare professionalità sempre più ibride. «L’adozione repentina di politiche di lavoro agile, volte a garantire la business continuity in una situazione emergenziale, ha dimostrato ancora una volta come qualsiasi processo di digital transformation sia legato tanto ad aspetti tecnici quanto di formazione e gestione delle risorse» – sottolinea Federico Colacicchi, managing partner di Techyon. L’ibridazione dei ruoli è segnale di un fenomeno evolutivo che impone sia alle grandi imprese sia alle PMI di reagire. «E appare ormai chiaro a tutti che i benefici dello smart working si estendono ben al di là della sola capacità di risposta a una crisi contingente: occorre ora trasformare una misura straordinaria in un approccio ordinario al lavoro».

In definitiva, molteplici settori produttivi possono beneficiare della flessibilità del lavoro digitale. Ogni azienda sa come gestire il proprio core business, tuttavia va preso in considerazione il supporto di professionisti che accompagnino lo switch per l’adozione di adeguate tecnologie abilitanti. «Lo smart working è uno dei temi che ci ha visto maggiormente attivi negli ultimi anni» – spiega Rosario Blanco, vendor commercial director di Westcon Italy, Greece, Cyprus, Malta and Adriatics. «Sono sempre di più le aziende che accompagniamo in questo percorso, facendo sì che possano accedere in maniera sicura a risorse e applicazioni aziendali, e consentendo efficienza e produttività. L’emergenza è stato un importante banco di prova per lo smart working. Ha fatto capire che è possibile una dinamica convivenza tra modalità remote e residenti, sicurezza e flessibilità. Pianificare, accelerare, estendere l’adozione del lavoro digitale è ormai alla portata di ogni azienda». Lo smart working non è più un tema di collaboration ma un asset fondamentale della continuità operativa da cui le aziende non potranno più prescindere in futuro.