Gruppo Mondadori, (trasform)azione digitale

«Sostenibilità e resilienza sono due facce della stessa medaglia. La trasformazione digitale non è solo disruption ma è soprattutto azione costruttiva»

I CIO possono essere considerati i nuovi architetti dell’impresa connessa, iperconvergente e sostenibile. «Sostenibilità e resilienza sono due facce della stessa medaglia. La trasformazione digitale non è solo disruption ma è soprattutto azione costruttiva. Oggi, più che mai ritengo che l’IT possa e debba svolgere un ruolo fondamentale per l’operatività, lo sviluppo sostenibile e anche sociale di una azienda» – spiega Luciano Guglielmi, CIO di Gruppo Mondadori, presidente di CIO AICA Forum, e membro del Board di EuroCIO. «L’infrastruttura rende sempre più facile l’attivazione di modalità di lavoro “agile” e gli applicativi sempre più spesso vengono ideati nativamente per “essere sul cloud” oppure spostati sul cloud, previo – molto spesso – una reingegnerizzazione anche spinta. Alla fine di questo processo, il modello lavorativo al quale siamo abituati sarà molto cambiato. E allora, il tema sarà come abituarsi a lavorare e vivere in modo differente. L’unico rischio è che la “consumerizzazione” dell’IT faccia credere a una semplicità di delivery applicativo e infrastrutturale che non è e non può essere vera».

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Leggere e interpretare il cambiamento

La trasformazione digitale del Gruppo Mondadori ha scaricato a terra una visione articolata di cambiamento a tutti i livelli dell’impresa e ha messo al centro la digitalizzazione dei processi interni per la costruzione di nuovi modelli di business che richiedono maggiore integrazione. «ll CIO è un enabler del cambiamento, deve essere il primo a leggerlo e il primo ad accettarlo sulla propria pelle, e con lui tutta l’IT».

Per Guglielmi, distinguere tra IT applicativa e IT infrastrutturale non è corretto, né tantomeno ritenere i due ambiti un dominio esclusivo del CIO. «Credo invece che il CIO dovrà svolgere un ruolo sempre più importante all’interno della propria azienda, diventando il reale punto di riferimento per lo sviluppo organico di soluzioni per il business; diventando consulente del business, con la creazione di una fiducia nei suoi confronti, derivante da un continuo colloquio e confronto costruttivo; non arroccandosi il privilegio di scegliere e decidere tutto quanto è tecnologia, ma giungendo ad essere chiamato a farlo perché ritenuto la persona più adatta e competente per questo compito. Il CIO in passato è stato visto come un accentratore di decisioni. Oggi, anche il business ammette che l’IT è fondamentale per lo sviluppo dell’azienda e soprattutto per la continuità operativa. A me piace dialogare ed ascoltare tutti. Talvolta, sono chiamato a prendere decisioni: questo è il lavoro di un manager, tuttavia cerco di condividere, e per quanto possibile, far comprendere le decisioni».

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Sicuramente, il CIO presidia la tecnologia e parte dei processi che regolano la vita lavorativa, strettamente legati all’attivazione di tecnologie ad hoc. «Per questo motivo, il rapporto con chi si occupa di processi organizzativi in azienda è essenziale» – continua Guglielmi. «Allo stesso modo, la conoscenza del business è importante al fine di servire al meglio il proprio cliente interno e anche esterno. Un buon CIO deve fare progetti non solo a breve termine ma anche a medio-lungo termine. Progetti che non tocchino solo l’ambito tecnologico ma anche quello dei processi. Ritengo che una ottima tecnologia non supportata da un processo efficace ed efficiente sia completamente inutile. Impossibile scindere le cose. L’implementazione di una tecnologia, di un applicativo, di una nuova infrastruttura implica l’adozione di un processo in grado di sfruttarne le caratteristiche. Decidere di cambiare e rendere più efficiente un processo implica adottare nuovi applicativi e nuovi flussi informatici. Quando tre anni fa in Mondadori, abbiamo deciso di adottare SAP S/4Hana da “green field” – cioè partendo dall’ERP custom che avevamo in azienda da oltre 20 anni – abbiamo sì adottato una tecnologia ma soprattutto “un modo di lavorare”. I maggiori benefici infatti ce li aspettiamo dall’efficienza operativa indotta sia come standardizzazione che come capacità informativa».

Costruire un mondo più sostenibile

Come si approccia il cambiamento? Come si governa? Come si cambia il modo di lavorare, produrre, comportarsi? Trasformazione non significa capovolgimento e neanche mantenimento dello “status quo”. «Ogni progetto di trasformazione si porta appresso due fattori: resistenza al cambiamento e approccio all’adozione» – spiega Guglielmi. «Come diceva Aristotele, ognuno di noi ama fare quello che è uso fare da tempo. L’abitudine è la forma di resistenza più forte al cambiamento. Trasformare fa male fino a quando non si scopre che la trasformazione ha portato benefici. Adottare un nuovo processo, una tecnologia diversa per il proprio ambito lavorativo è sempre uno choc. Trovare il modo migliore per far adottare e accettare un cambiamento decreta il successo o meno di un progetto. Bisogna comprendere che il cambiamento è una risorsa. E allora tutti finiscono per cavalcarlo e diventano paladini del cambiamento. Pensiamo alle varie forme di telelavoro mascherato da smart working. La nuova organizzazione del lavoro va capita, integrata, regolata non solo cavalcata. Perché dobbiamo pensare un nuovo equilibrio tra strumenti e risorse. Qui la collaborazione tra CIO e responsabili delle HR permetterà di far evolvere le aziende verso un nuovo modo di lavorare, più agile e più protetto dal punto di vista della cybersecurity, coinvolgente dal punto di vista delle risorse umane». Lo smart working – secondo Guglielmi – è una strada per valorizzare persone e rendere più flessibili le organizzazioni, costruendo contesti efficienti con persone più autonome, motivate e proattive.

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«Ma per funzionare, lo smart working si deve nutrire di cura delle persone, engagement, progettazione organizzativa, revisione dei processi, sicurezza. Dopo la remotizzazione di massa del lavoro dobbiamo occuparci di tutto questo se vogliamo fare un passo in avanti». L’esperienza della pandemia ha permesso di creare una discontinuità propedeutica al cambiamento, facendo cadere molti luoghi comuni. «Grazie alla tecnologia abbiamo alimentato le relazioni umane e professionali» – afferma Guglielmi. «Le aziende hanno potuto continuare a lavorare. Credo che tutto dipenda da come si adopera la tecnologia e dalla capacità di saperla usare, per evitare nuovi squilibri. A partire dalla alfabetizzazione informatica, che rappresenta ancora un gap profondo da colmare».

Guglielmi nutre una sana diffidenza verso chi ha la ricetta pronta per tutto. «Non credo ci siano in questi campi regole valide per tutti e in tutte le situazioni. Ritengo che l’alfabetizzazione informatica e la specializzazione delle competenze possano aiutare l’innovazione – tecnologica, di processo e sociale – che non può e non deve prescindere dal suo impatto sostenibile. La sostenibilità è obbligo di tutti. E non parlo solo di sostenibilità ambientale, ma di sostenibilità delle scelte, della consapevolezza che ogni scelta avrà un impatto anche sulle generazioni future. Dobbiamo lasciare ai nostri nipoti un mondo dove si lavora meglio, si vive meglio e dove si è ricreata la speranza nel futuro. Questo lo possiamo fare solo rendendoci conto che ogni (trasform)azione che facciamo oggi deve essere sostenibile ai fini della creazione di un futuro più in equilibrio sia a livello ambientale che economico e sociale».