Le lezioni del caso Telecom

Vogliamo moglie ubriaca e botte piena? Telefonica controllerebbe Telecom Italia con una quota simile a quella degli Agnelli in Fiat, ma è scandalo. Favorevoli al consolidamento, purché sia degli altri. Si tratta con i cinesi, ma è levata di scudi per gli Spagnoli. Il vero problema è che il settore in Italia e in Europa non genera più margini. Al contrario degli Usa, dove si investe


TI PIACE QUESTO ARTICOLO?

Iscriviti alla nostra newsletter per essere sempre aggiornato.

Il 2013 doveva essere l’anno dell’Agenda Digitale. Passerà per l’annus horribilis delle Tlc. E anche per quello delle contraddizioni infinite. La levata di scudi per la “difesa” di Telecom Italia fino a fare della rete un asset strategico di sicurezza, suona di ipocrisia. In questi anni, se da una parte le proprietà di turno e il management non hanno fatto molto per farsi amare, dall’altra l’operatore era costantemente descritto come il carrozzone indebitato che esercitava un opprimente monopolio. Ora che altri si fanno avanti per rilevare un’azienda che, comunque, genera ancora un Ebitda attorno al 40%, il ranocchio sembra trasformato nel principe azzurro che la strega cattiva vuol rapire. Ancor più stupefacente è che obiezioni non trapelate quando il cavaliere bianco poteva stare a Hong Kong (forse ci credevano in pochi) siano esplose quando con pochi soldi il controllo finiva a Madrid. Eppure, nei tempi buoni della Fiat, la famiglia Agnelli direttamente e indirettamente arrivava al 27%, ma nessuno si lamentava. La vera domanda dovrebbe essere: quali sono le condizioni che hanno portato a non trovare capitali italiani interessati? Certo, l’idea che quella di Telco sia comunque un’operazione al ribasso, dettata dalla mancanza di alternative, che ha come protagonisti diretti e indiretti i due “incumbent” più indebitati d’Europa, campioni dei due paesi che hanno provocato recentemente a Vodafone perdite da minusvalenze per 6 miliardi di sterline, non lascia soddisfatti. Negli stessi giorni in cui Franco Bernabè metteva sul tavolo le sue dimissioni, l’Agcom pubblicava il rapporto trimestrale a fine giugno, da cui appariva come, per la prima volta, Telecom scendeva sotto il 50% (49,9%) nel mercato dell’accesso, l’unico che conta sulla rete fissa. Al di sotto cioè della soglia che i concorrenti in questi anni indicavano come la condizione necessaria per avere un mercato competitivo. Tutti contenti? Non proprio. Se Telecom Italia entra nella bufera e il bond passa categoria “spazzatura”, Vodafone annuncia 600 esuberi, svaluta per 2,4 miliardi di sterline le attività italiane, riduce i ricavi in doppia cifra percentuale mentre avanza richieste di risarcimenti per un miliardo verso Telecom Italia, rea di aver boicottato il mercato del fisso; Wind, che si scopre pesantemente indebitata, minaccia l’uscita dal fisso; Fastweb aumenta i clienti ma non i ricavi e su di essa continuano ad agitarsi i dubbi sulla possibile cessione.

PERCHÉ GLI USA CRESCONO E L’EUROPA NO

Se Atene piange, Sparta non ride ed emerge un mercato che, a quindici anni dall’inizio del processo di liberalizzazione, semplicemente non riesce più a trovare i mezzi per sostenersi. Né aiutano i richiami alla necessità di un consolidamento europeo, proprio mentre la commissaria Neelie Kroes fa capire che non intende giungere il prossimo anno alla fine del suo mandato senza aver messo in moto il disegno dell’European Single Market, che vuol dire il progressivo azzeramento delle tariffe del roaming internazionale (altri miliardi in meno per gli operatori). L’Europa aveva voluto nel 1998 la liberalizzazione competitiva, ma in un mercato a prezzi discendenti, questa ha aumentato il numero delle fette di una torta che non cresceva. Quando TIM lanciava le carte prepagate (ottobre 1996), un minuto di conversazione costava l’equivalente di un euro, poco meno di una settimana di tariffe low cost odierne, e questo spiega molto di quanto sta avvenendo sul mercato europeo e italiano. Qualcosa di ben diverso da quanto avviene sul mercato USA dove le tariffe sono più remunerative, gli operatori principali sono quattro (il terzo e il quarto in mani estere, tedesche e giapponesi) e i fornitori cinesi sono tenuti alla larga. Risultato: negli USA si investe e si fanno le nuove reti, in Europa si sta con il piede sul freno più che sull’acceleratore. L’idea che dopo anni dalla liberalizzazione, la strada passi per un intervento pubblico sul capitale della futura società delle reti sembra un ritorno alla Stet (che però guadagnava) ed è funzionale a un concetto potenzialmente pericoloso: che la rete possa essere gestita anche in perdita, perché a fare utili dovranno essere i servizi. Già, ma quali? Quelli delle aziende con una testa in Silicon Valley, un piede in Irlanda e l’altro ad Aruba? L’idea che con qualche centinaio di milioni Telefonica si appresti a conquistare il controllo “de facto” di Telecom non è piaciuta, anche se vanno ricordati i miliardi sfumati in minusvalenze con un titolo che ha perso il 90 per cento in 10 anni e che si è diviso per quattro dal momento dell’ingresso dell’operatore spagnolo. C’è un antidoto? Sì, ed è che la filiera delle telecomunicazioni torni a essere adeguatamente redditizia. Le ritrosie del presidente della CDP, Franco Bassanini, a mettere soldi solo perché non ce li mettono gli altri sono giustificate. Le ingegnerie finanziarie non aiutano a dare risposta stabile ai problemi, nemmeno quelle relative all’uscita dal Brasile, dove – a parte il tourbillon di manager – Telecom in brevissimo tempo è passata da una crescita a due cifre a una vicina allo zero, per qualche trimestre sostenuta dalla vendita degli smartphone, e con un Ebitda che – comunque – è la metà di quello domestico italiano.

CONSOLIDAMENTO, MA QUALE?

Come si concilia tutto questo con la parola magica del “consolidamento”, che in fondo vuol dire che il pesce grosso mangia quello piccolo e che gli organici andranno ridimensionati? Il mantra è che se il mercato americano ha quattro operatori (anche quelli locali tuttavia hanno un ruolo, andrebbe aggiunto), quello europeo non può andare avanti con una sessantina, che diventano 200 considerate le filiali nazionali. Bene, ma come scrollare l’albero? Consolidare verticalmente, a livello di singolo paese vorrebbe dire tornare indietro di almeno quindici anni. Consolidare orizzontalmente, attorno a pochi campioni europei sembra più plausibile, ma il caso Telco dimostra che non è facile. Oltretutto, dove stanno le sinergie? Nei consigli d’amministrazione? Le TLC non possono “inventarsi” un’Europa che non c’è. Avere a che fare con una ridda di lingue è già un problema, visto che la Ue conta 24 lingue ufficiali e 60 tra regionali e minoritarie. Altrettanto complesso è fronteggiare 28 governi e altrettante Authority per le comunicazioni, tutte restie a trasferire i loro poteri alla Commissione Ue o a un Berec potenziato. Comunque, le acque si stanno già muovendo. Per ora in chiave di una riduzione del peso europeo. Vodafone lascia gli Usa, raccogliendo 100 miliardi di euro per il suo 45% in Verizon Wireless, che per inciso fa solo il triplo dell’Ebitda di Telecom Italia. AT&T, l’altro grande operatore Usa, guarda all’Europa, il messicano Carlos Slim, l’uomo più ricco del mondo, proprietario di America Movil (200 milioni di utenti), entra in KPN su cui lancia un’IPO che valorizza l’operatore olandese 10 miliardi di euro (più o meno come Telecom Italia), conquista un quarto di Telecom Austria, la quota che dieci anni fa aveva Telecom Italia a Vienna, tratta con gli spagnoli e mette un piede indiretto in Germania. All’Italia e a Telecom aveva già guardato (nel 2007) insieme con AT&T, ma era stato respinto. A fine settembre, era tra i quindici commensali di Enrico Letta presso la sede di Bloomberg a New York. Non lo perderemmo d’occhio. Il futuro sarà, come predice il coordinatore dell’Agenda Digitale Francesco Caio, caratterizzato da operatori che, in definitiva metteranno a disposizione dei “tubi” come una qualunque commodity? Lo scenario potrebbe cambiare se, sotto la spinta soprattutto del cloud, il mestiere stesso dei carrier potesse effettivamente cambiare. Il consolidamento potrà passare anche per la convergenza di informatica e telecomunicazioni? I tentativi in passato non sono mancati e non sono stati necessariamente di successo. I carrier potrebbero davvero fare la differenza nel mercato del cloud. Ma a condizione di un cambio di cultura e competenze che non è tra le cose scontate.

Leggi anche:  Ericsson: servizi 5G premium grazie all’intelligenza artificiale