Nicola Bernini (Uber), l’importanza di reinventarsi

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Chi pesca i dati e li studia con le tecnologie più avanzate sarà il “petroliere” del futuro. La passione del senior autonomy engineer di Uber e la capacità di scoprire nuovi percorsi come antidoto alla complessità

Un MsC in Computer Science, un PhD in Computer Science e un BsC in Physics. «Studiavo di sera e davo gli esami quando mi prendevo le ferie». Così racconta a Data Manager, Nicola Bernini, senior autonomy engineer di Uber, attualmente impegnato nella realizzazione di Uber Air, in un centro di ricerca situato nel cuore di Parigi. I professionisti di data science e di intelligenza artificiale sono tra i più richiesti dalle aziende. Ma quanto è complesso il processo di selezione? Bisogna considerare, infatti, che il data scientist non è un mero statistico o un informatico. Le università sfornano sempre più corsi di questo tipo, eppure non sono convinto. C’è fin troppo hype. Dalla mia esperienza e da quella di Nicola Bernini, il data scientist deve essere una figura estremamente versatile ma che conosce innanzitutto la matematica. L’intelligenza artificiale stessa è scritta in linguaggio matematico. Tante volte, però, incontra alcuni limiti che solo una disciplina come la fisica riesce a colmare. Chi pesca i dati, i migliori dati, e li studia con le tecnologie più avanzate dal punto di vista scientifico, sarà il “petroliere” del domani. Almeno su questo, credo, siamo tutti d’accordo.

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Data Manager: Che cosa fa, esattamente, un senior autonomy engineer?

Nicola Bernini: «È un titolo atipico: difficile trovarlo in altre realtà. Proprio perché è già di per sé difficile da definire. Per spiegare di cosa si tratta preferisco raccontare di cosa mi occupo concretamente. Nel mio lavoro mi occupo sia di engineering che di ricerca. Lato engineering, sto costruendo alcune delle piattaforme tecnologiche che supporteranno sia la fase di design che la produzione del servizio».

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Immagino tanto coding…

«Esatto, tantissimo coding, ma anche le attività di DevOps hanno un impatto non trascurabile, almeno in questa fase».

E lato ricerca?

«Mi occupo prevalentemente delle diverse possibili applicazioni del deep learning a tematiche di nostro interesse, prima di tutto la sicurezza: a livello di singolo veicolo, di flotta e di tutto il sistema. Il research center di cui faccio parte non è esclusivamente orientato all’interno ma anche all’esterno. Abbiamo collaborazioni con importanti università francesi, come l’École Polytechnique. Ho la fortuna di lavorare con colleghi brillanti e con importanti carriere alle spalle».

Prima di arrivare in Uber e occuparti di intelligenza artificiale, cosa facevi?

«Ho iniziato a lavorare nel 2005, appena ottenuta la laurea magistrale in ingegneria informatica. Anzi, no. Nel 2001, programmavo schede per il traffico telefonico in C++ sotto Windows. Penso sia stata la prima e ultima volta che ho sviluppato qualcosa sotto Windows, ma non per mia scelta. La fine dell’università mi ha lasciato un po’ spiazzato: non che non sapessi cosa fare, lo sapevo eccome, ma non sapevo come farlo, considerando che, al tempo, non volevo prendere in considerazione l’idea di spostarmi da Parma. Sono molto legato al mio bellissimo paese in provincia, chiamato Noceto».

Sei un talento in intelligenza artificiale, lavori in Uber a Parigi e pubblichi molto spesso articoli tecnici sul mondo del deep learning ma volevi restare in una piccolissima realtà. Non ti capisco…

«Il problema allora era, ed è sempre stato per me, conciliare il desiderio di grandi sfide con la qualità della vita. Ai grandi eventi e al turbine di emozioni che ti regalano le grandi metropoli, preferisco la tranquillità del paese, perché ti dà la possibilità di riflettere meglio. Sono profondamente legato alle mie radici».

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Radici e ali, giusto?

«Sì, le radici ci danno sostegno e ci ricordano chi siamo e da dove veniamo. Ritornando al mio percorso professionale, il conseguimento della laurea è stato un momento importante. Visto che non avevo ancora risolto il problema di conciliare le ambizioni con la qualità della vita, ho optato allora per una soluzione “creativa”: ho cominciato come software engineer, lavorando in diverse aziende locali medio-grandi e, nel frattempo, mi sono iscritto a un’altra università. E ho iniziato a studiare fisica».

Sembra, infatti, che i lavori più interessanti sul tema dell’intelligenza artificiale vengano proprio dai fisici…

«É proprio così. La maggior parte delle persone che conosco, quando l’hanno saputo, sono rimaste a dir poco sorprese, ma tornando indietro credo sia stata una delle migliori decisioni che abbia preso in vita mia. Mi ritengo più un fisico che un ingegnere. Ho conseguito la laurea in fisica mentre lavoravo, ed è stata per me la coronazione di un sogno».

Nessuna fatica?

«Quando ne parlo, pensano sempre che abbia fatto un’enorme fatica, ma in realtà è esattamente l’opposto. Mi ha letteralmente rigenerato e aiutato a evolvere oltre lo stadio di allora. Ovvio, non è stata una passeggiata di salute, studiavo di sera e di notte. Ma il mio sonno non è proprio regolare, quindi non è stato assolutamente un problema».

Quando ami qualcosa, la fatica…

«Era una fatica bella, buona e sana. All’opposto della fatica derivante per esempio da un lavoro alienante. O che non ti piace».

Come sei arrivato a Uber?

«Avevo preso in seria considerazione l’idea di fare il dottorato in fisica e iniziare una carriera accademica ma, proprio in quel periodo, mi capitò un’altra opportunità. Un altro dottorato ma in ingegneria, lavorando su automobili a guida autonoma nella più grande realtà italiana del settore VisLab, tra l’altro con sede a Parma».

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Quindi, nuovamente lavoro e studio…

«Sì. Ho conseguito il dottorato e avevo, contestualmente, la possibilità di crescere di nuovo da un punto di vista professionale, “reinventandomi” come research engineer in un ambito unico, all’intersezione di machine learning, computer vision and robotics».

Per quanto tempo?

«Sono rimasto in quella realtà per ben otto anni e sono ancora in contatto con tutti. Una birra in compagnia è sempre gradita e coi tempi che corrono va benissimo anche un tele-aperitivo».

Ma ora basta parlare del passato e del presente. Cosa ci riserva il futuro?

«Già. Il futuro… Vedo ancora persone che fanno piani da oggi alla loro pensione. Ma sono già nel gruppo degli “enta” e mi viene da ridere. C’è un ”cigno nero” bello grosso ogni 10 anni circa. Solo per citare gli ultimi tre: la bolla delle dot-com, la grande crisi finanziaria del 2008 e – ça va sans dire – l’odiato virus. C’è, secondo me, un’evidenza empirica che bisogna accettare: il mondo in cui viviamo è molto meno robusto di quanto pensiamo, e soprattutto è instabile. Mi riferisco, per esempio, al cosiddetto butterfly effect».

Non hanno senso le previsioni a medio termine? Stai dicendo questo?

«In un contesto di questo tipo, assolutamente no. Ma per quanto mi riguarda vado avanti con un motto, preso in prestito dal Generale Eisenhower: in preparing for battle, I have always found that plans are useless, but planning is indispensable».