Stereophonics: intervista tra musica, riti di passaggio e la complicità di un cellulare

Quasi quattro anni di silenzio discografico sono tanti in un mondo in cui l’immediatezza della fruizione e la facilità di reperire canzoni (oltre a una presenza costante sui media e su internet) rendono il contatto tra cantanti e pubblico semplice, diretto, istantaneo. Eppure, nonostante questo, una della più classiche british band ha scelto di premere il tasto stop e fermarsi per realizzare il nuovo disco: stiamo parlando degli Stereophonics e dell’album “Graffiti on the train”, in uscita il 12 marzo

«La fissa del successo rovina la musica, sia che venga fruita su vinile o tramite i social network»

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Scritto da Kelly Jones, l’album degli Stereophonics (ricordate? Sono quelli di “Maybe tomorrow”, brano della colonna sonora del film “Crash”) è stato registrato tra Londra e il Belgio. E’ un disco che si ispira a una sceneggiatura, scritta appunto da Jones: parla di due ragazzi e di un loro viaggio che è “la storia di un rito di passaggio”.

Data Manager: Questo è il vostro ottavo disco. Da quale premessa è nato, musicalmente?

Kelly Jones: Non volevo fare un disco che fosse ‘oh, un altro album degli Stereophonics’. Volevo sorprendere per primo me stesso.

Perché avete scelto di prendervi una pausa per realizzare questo album?

KJ: Dopo aver completato il tour in Sud America nel dicembre del 2010 ci siamo fermati alcuni mesi. Per la prima volta in 15 anni, l’anno scorso non siamo andati in tour. Questa è stata un’ottima decisione, la creatività è fluita da sola. Abbiamo cercato uno studio a Londra, decisi ad andarci ogni giorno per scrivere qualcosa (musica, film, storie…).

Richard Jones: Non lo avevamo mai fatto prima – di solito in sei settimane di studio completavamo un album.

Com’è stato il processo creativo?

KJ: Mi sono trovato in studio con 40 idee non ancora finite, a differenza del solito quando ne avevo solo una decina ma già chiare in testa. Per questo le canzoni sono molto più imprevedibili che in passato.

RJ: Cerchiamo di prenderci dei rischi e spingere in là i nostri confini.

Kelly, il disco è nato da una sceneggiatura che hai scritto, intitolata “Graffiti on the train” come il cd…

Parla di due ragazzi che vivono in un paesino e che partono alla scoperta dell’Europa, dove capiscono che c’è molta più vita di quella che hanno vissuto fino ad allora. E’ una specie di mix tra “Stand by me” (film ispirato a un libro di Stephen King, nda) e “Quadrophenia” (film tratto dall’omonimo album degli Who, nda).

Siete in attività da circa vent’anni, cosa significa essere oggi una band di successo? Vendere album, avere follower sui social network, collezionare visualizzazioni su YouTube?

KJ: Avere successo per noi è scrivere canzoni che la gente vuole ascoltare. Non importa se poi siano su vinile, cd o in mp3, o anche diffuse tramite i social network. Se hai la fissa del successo, non viene fuori niente di buono. Anche un pittore, se pensa che deve fare un quadro per venderlo, farà una crosta. Poi, certo, alcuni dischi vendono bene, altri meno. Siamo in un periodo di transizione per quanto riguarda l’acquisto e la fruizione della musica, noi dobbiamo prenderne nota ma non pensarci quando scriviamo canzoni. Di sicuro, oggi come mai nel passato, tante persone nel mondo ascoltano musica.

C’è qualche aneddoto ‘tecnologico’ sulla nascita del disco?

KJ: La canzone “Violins and tambourines” è nata da un riff di 49 secondi che avevo registrato sul mio cellulare. Due ore ed era fatta: se liberi la mente dal pensiero del marketing e delle vendite, la musica nasce con facilità, come succedeva quando non eravamo ancora dentro l’industria discografica.

Il brano “Indian summer” è stato aggiunto all’ultimo. Come mai?

KJ: Perché me l’ero dimenticato! L’avevamo realizzata e salvata da tempo sul mio laptop, e non l’avevamo mai usata. Una volta finito il disco l’ho ritrovata per caso e l’abbiamo inserita.

(Foto credits: Gullick)

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