E se l’Italia fosse una start-up?

Giuseppe MariggiòLa notizia non è di quelle buone. L’OCSE conferma la contrazione del PIL italiano dell’1,8% nel 2013, unico dato negativo tra i Paesi del G-7. Una notizia che non premia i tentativi di riforma degli ultimi due esecutivi al governo e che deprime la voglia di cambiamento delle imprese che chiedono meno pressione fiscale e più flessibilità sul lavoro sia in ingresso sia in uscita. Forse, bisognerebbe ripensare l’intero Sistema Italia in una logica di start-up. Ma se l’Italia fosse una start-up troverebbe dei finanziatori disposti a puntare sul suo futuro? Azzerare tutto e puntare con un drastico cambiamento di rotta su innovazione, formazione e ricerca è un’ipotesi veramente praticabile? Più facile a dirsi che a farsi in un Paese in cui il decreto sulle start-up innovative premia più le banche che le idee che funzionano, in cui la finanza di progetto è un arzigogolo per burocrati e in cui anche la nomina a senatori a vita da parte del Presidente della Repubblica, da gesto simbolico di discontinuità e cambiamento diventa sospetta mossa politica.

Lo scenario di occupazione debole, crescita globale a rilento e permanenti squilibri globali fanno da sfondo alla necessità urgente di riforme strutturali, per sostenere la domanda, per creare lavoro e aumentare il tasso di crescita. L’Italia sarebbe tecnicamente fuori dalla recessione, ma resta ancora in area negativa mentre il resto dell’Eurozona cresce, Germania in testa.

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Perché in Italia c’è meno sviluppo, meno lavoro e l’innovazione è una parola comune più che un modo di essere e fare le cose? Ecco di cosa si dovrebbe discutere nei palazzi di governo e nelle segreterie dei partiti, senza perdere tempo. Eppure, The Economist ha svelato che l’Italia è il paese europeo dove gli amministratori delegati guadagnano di più. Forse a fronte di risultati migliori che altrove? Il mondo e le grandi multinazionali dell’ICT fanno le loro mosse: Microsoft compra i cellulari e i brevetti Nokia e pianifica l’era post Ballmer con il ritorno di Stephen Elop; Vodafone esce dal mercato USA con l’accordo con Verizon e compra Vodafone Italia. Intanto, nel nostro paese si guarda ai “gioielli di famiglia” (Eni, Enel e Finmeccanica) e si studiano ipotesi di dismissioni, al momento tutte da verificare. L’Italia con il Decreto Crescita 2.0 è stato il primo paese in Europa a dotarsi di una normativa per la raccolta su Internet di capitali per le start-up innovative, ma con quali risultati? Le smart city italiane si moltiplicano nella logica dei progetti promossi dal lato dell’offerta da parte delle grandi aziende ICT, lasciando al Paese una geografia a macchia di leopardo dove tra una smart city e l’altra è facile piombare nel Medioevo tecnologico. Intanto, dopo la nomina di Francesco Caio, non si parla più delle scadenze dell’Agenda Digitale italiana, dei piani regionali, del sistema pubblico di connettività. Quale sarà il riscatto dell’Italia e della sua industria per vincere la sfida della competizione internazionale? E chi pagherà il prezzo? Non c’è colpa senza riscatto. E non c’è riscatto senza prezzo. Rimodernare l’industria e combattere gli ostacoli agli investimenti internazionali. L’Italia attende un riscatto dai pericoli di marginalità e dai limiti di una politica dallo sguardo corto. Un riscatto per una nuova stagione economica, non in nome di una pretestuosa difesa dell’italianità, ma in nome del lavoro e della capacità vera di fare impresa. E’ questo l’auspicio che rivolgiamo al nuovo presidente di Assinform, Elio Catania, dopo il passaggio di testimone con Paolo Angelucci. Oltre alla carica di presidente di Assinform, Catania per il prossimo quadriennio sarà anche vice presidente di Confindustria Digitale – e in questo ruolo – ha dichiarato che si impegnerà affinché il gap di competitività che si registra in Italia possa essere colmato, promuovendo proprio un uso innovativo dell’ICT. Per Lucio Stanca, che dopo essere stato ai vertici di IBM Italia è stato per due volte ministro per l’Innovazione e le Tecnologie, Catania è la persona giusta a capo dell’associazione nazionale delle principali aziende ICT che aderisce a Confindustria. «Fa bene Catania – commenta Stanca – a dire che l’innovazione è una questione culturale, un radicale cambiamento del modo di operare e non solo un fatto tecnico o tecnologico. In Italia – però – questa comprensione è in ritardo rispetto a tutti gli altri paesi sviluppati». Elio Catania fa bene a dirlo. Ci auguriamo che possa anche metterlo in pratica. 

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