#SiamoForty: Identità e trasformazione

Tocca ai CIO guidare il rinnovamento del Paese. L’ICT non può essere soltanto una cassetta degli attrezzi, ma deve diventare un modo per fare le scelte giuste. Conosciamo la strada. Abbiamo gli strumenti. Che cosa ci impedisce di cambiare veramente?

L’Italia del 1976 è un po’ quella del 2016. L’Italia è in piena crisi monetaria, gli italiani fanno i conti con la paura del terrorismo interno. Si aprono a Montreal (Canada) i XXI Giochi Olimpici. La benzina costa 53 centesimi di dollari al gallone. Felice Gimondi vince il Giro d’Italia, la Corte di Cassazione condanna il film Ultimo tango a Parigi di Bernardo Bertolucci. Scoppia lo scandalo Lockheed e Piero Pelosi viene condannato per l’omicidio Pasolini. Il 1976 è anche l’anno della prima stampante laser, l’IBM 3800, del sistema a terminali HP 3000 serie I di HP e del primo supercomputer commerciale, il Cray-1 realizzato da Seymour Cray. Debutta il sistema di scrittura TES 501 di Olivetti, si festeggiano i dieci anni della mitica Perottina. E i CIO si chiamano ancora “capi centro EDP”. Steve Jobs e Steve Wozniak, un anno prima avevano già costruito nel loro garage l’Apple I. E mentre si chiude la dolorosa pagina della guerra in Vietnam, ad Albuquerque, New Mexico, due giovanissimi Bill Gates e Paul Allen danno inizio a quella che oggi chiameremmo una startup con il nome di «Micro-Soft Company».

TI PIACE QUESTO ARTICOLO?

Iscriviti alla nostra newsletter per essere sempre aggiornato.

Nel primo numero di Data Manager si parla di evoluzione del data center integrato (un titolo che andrebbe bene ancora oggi), di elaborazione decentrata e di business continuity nelle banche. Gli italiani si siedono per la prima volta davanti alla televisione e si dividono in due target per guardare la Domenica In di Corrado mentre sul Secondo Canale debutta L’altra domenica di Renzo Arbore. Intanto, la Corte costituzionale dichiara legittime le trasmissioni radiotelevisive a copertura locale di reti private e inizia una lunga stagione che avrebbe trasformato antropologicamente il popolo televisivo, da spettatori a trend setter, passando dal telecomando allo smartphone. Gli uomini di Al Fatah in Libano tentano di bloccare l’avanzata di truppe siriane. Il Napoli vince per la sua seconda volta la Coppa Italia. L’Unione Sovietica lancia nello spazio la navicella Soyuz 21 con due astronauti a bordo. Bettino Craxi diventa il nuovo segretario del PSI. La sonda Viking II atterra su Marte. Muore Mao Tse-Tung, leader della Cina moderna. Jimmy Carter è il nuovo presidente degli Stati Uniti. Nello stesso anno, James Goodnight fonda SAS in North Carolina e la FIAT annuncia che la Libia del colonnello Gheddafi entrerà nel capitale della casa torinese. Olivetti, dalla fiera di Hannover presenta il “personal minicomputer” P6060. Sulla pubblicità dei supporti magnetici “Scotch” 3M si legge che tutte le consociate del gruppo in Europa e Medio Oriente vengono rifornite dal modernissimo stabilimento di Caserta. In Italia, il governo approva l’aumento delle tasse, il blocco della scala mobile. L’inaugurazione della stagione alla Scala viene duramente contestata con lancio di uova marce contro il pubblico e di molotov contro la polizia. Sono le prime avvisaglie del Movimento del ‘77. Il lavoro diventa terreno di scontro. Sotto la spinta della ricostruzione e del boom economico, l’Italia entra nel G7. In questa trasformazione, da Paese agricolo a potenza industriale europea, gli investimenti pubblici di Stato con le attività di Iri, Eni e Cassa del Mezzogiorno hanno un ruolo determinante. Nella seconda fase dello sviluppo del Paese, il “capitalismo senza capitali”, certe “relazioni pericolose” e il baratto tra spesa pubblica e consenso elettorale, faranno la differenza tra economia di mercato ed economia dei “salotti buoni”, tenendo l’Italia ai margini della competizione e aprendo alla grande svalutazione degli asset principali.

Formiche o aquile?

Nel 1976, Eugenio Montale scriveva che “si deve attendere un pezzo prima che la cronaca si camuffi in storia: solo allora il volo di una formica sarà d’aquila”. Dopo 40 anni, le imprese italiane sono ancora formiche laboriose in un mondo di giganti. C’è un momento in cui si tracciano i bilanci e si guarda indietro prima di affrontare nuove sfide. Durante questi anni, i CIO hanno attraversato due modi molto diversi di “fare” informatica. E oggi, fanno i conti con gli effetti della digital transformation. Industria, cultura e innovazione sono le leve della crescita. La produttività debole è la causa principale del ritardo storico dell’economia italiana. Abbiamo attraversato anni molto difficili, resta il divario tra Nord e Sud del Paese, ma le imprese italiane ce la possono fare: bisogna – però – correre per recuperare tempo e competitività. Tra spinte contrastanti, tocca ai CIO guidare il rinnovamento del Paese, offrendo proposte a chi governa il Paese e a chi guida le imprese. I dati ci raccontano un’Italia in cui l’innovazione è a macchia di leopardo, in cui gli investimenti pubblici, ma soprattutto privati, sono inferiori alla media europea, e in cui la pubblica amministrazione fatica a cambiare passo, nonostante l’accelerazione sui pagamenti con la fatturazione elettronica e il lancio del Sistema Pubblico d’Identità Digitale (SPID). L’Italia ha enormi potenzialità ancora da esprimere. Il vero problema resta la mancanza di crescita che ci accompagna da 40 anni. Senza crescita non si innova e senza innovazione non si cresce. Un circolo vizioso nel quale l’Italia rischia di restare intrappolata, con un PIL che ha l’effetto di una zavorra troppo pesante. Guardare avanti significa anche prendere atto della realtà che i dati ci raccontano. Ma senza paura del futuro. Perché questo è il punto di partenza per cominciare a cambiare rotta. Secondo i dati della Commissione Europea, in Italia, gli investimenti pubblici in ricerca e sviluppo sono lo 0,54% del PIL (0,75% della media europea) e quelli privati sono lo 0,67% del PIL (0,52% della media europea). Questo divario dura da più di 30 anni. Il PIL dei 27 paesi europei supera quello degli Stati Uniti. Gli Stati dis-uniti d’Europa sulla carta contano di più degli Stati Uniti. Ma è vero solo sulla carta. Dopo il 1989 bisognava rendersi conto che non serviva fare l’Europa, ma bisognava costruire il mondo. L’Europa è rimasta un sogno anche perché abbiamo imposto all’Unione un solo obiettivo: la stabilità economica, ma con la sola stabilità contabile, non si può finanziare la crescita. Così, le nostre migliori aziende continuano a crescere sui mercati esteri, peccato che queste aziende contribuiscano a far crescere il PIL del mondo, più di quello nazionale.

Decidere e competere

La parola competizione significa alla lettera “cercare insieme”. Il verbo decidere porta con sé il significato di “tagliare”. Decidere senza tagliare e competere restando da soli è il modo migliore per perdere la sfida. La cooperazione tra pubblico e privato, e la sinergia tra imprese sono la formula per fare di necessità virtù, per un nuovo modello di sviluppo sostenibile e anche di formazione nella logica di un grande Politecnico o di un grande laboratorio nazionale per l’innovazione. L’innovazione è fonte di crescita, ma non si può sviluppare in un ambiente culturalmente povero. Sarebbe necessario creare alleanze e task force in grado di arruolare le università, i centri di ricerca, il Parlamento, le aziende di ogni dimensione, per un continuo miglioramento culturale. La prosperità cresce nelle società in cui la ricerca di conoscenza è un valore accettato e finanziato. Dentro un cellulare ci sono più di centomila brevetti che determinano il 30 per cento del suo valore. Inventare e brevettare sono il cuore dell’economia. Nel 2014, il numero dei brevetti italiani era sotto la media europea, nel 2015 è andata molto meglio. E nella classifica dei brevetti siamo diciottesimi al mondo. Il ruolo dei CIO è destinato a crescere nelle organizzazioni aziendali con una convergenza verso l’alto e con una fusione tra CIO e CEO. Ma non solo. In questa fase di trasformazione, che non lascia intatti ruoli e competenze, i CIO saranno chiamati a nuove responsabilità, saranno a capo dei dipartimenti di ricerca, dei CERT nazionali, delle forze di polizia e chissà – forse – anche alla guida di ministeri come l’Agricoltura, l’Ambiente e le Infrastrutture. Innovazione è la parola chiave dell’economia moderna. L’innovazione è un elemento necessario per competere sul mercato, ma questa innovazione ha costi che le piccole imprese non possono sostenere. Il pubblico deve esercitare un ruolo fondamentale, ma il motore dello sviluppo rimane l’impresa. A volte un intervento pubblico pesante e invasivo corre il rischio di mortificare capacità e spirito imprenditoriale, spesso creando inutili intralci alla competizione. Nel sistema italiano dell’innovazione, Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia e Lazio sono le regioni che trainano il Paese. In Puglia e Basilicata, nonostante i bassissimi investimenti in R&D, aumenta la velocità di crescita delle imprese innovative. Tra indicatori e classifiche, le differenze di capacità innovativa rispecchiano, ma estremizzano le differenze di sviluppo economico fra Nord e Mezzogiorno, rilanciando una questione di infrastrutture mai risolta e di un Paese a due velocità.

Quale politica industriale?

In Italia serve una vera politica industriale e non una politica di bandiera a sostegno di una malintesa italianità o di imprese senza futuro. Non si tratta di scegliere chi vince e chi perde, ma di stabilire una strategia e di essere capaci di attuarla. E invece siamo ancora a discutere “se fare” e “come fare”. C’è bisogno di stabilità di lungo termine per consentire di gestire processi di innovazione che devono durare anni. Serve una riflessione più radicale e organica sugli investimenti strutturali necessari e una lista vincolante delle priorità da realizzare. Serve una politica di investimenti pubblici, ma anche un’azione concreta contro l’illegalità, l’eccesso di burocrazia, i tempi della giustizia in grado di eliminare i freni agli investimenti privati, interni e internazionali. Un nuovo piano per lo sviluppo deve partire dalle nuove tecnologie, dal green, dalla banda larga su tutto il territorio, dall’unificazione di tutti i data center della PA, dal Sistema Pubblico di Identità Digitale, dall’Anagrafe estesa, dagli open data (veri), che sono l’ABC per rafforzare la competitività delle imprese. Nel 2020 un chip sarà piccolo quasi quanto un neurone umano e la sua potenza supererà quella di un miliardo di transistor. I robot saranno dotati di empatia e porteremo nel taschino tutta la conoscenza del mondo. Saremo in contatto con persone e cose. La rivoluzione dei dati abiliterà nuovi modelli di business, cambierà il modo di vendere, acquistare e prestare denaro, con un impatto sulla sicurezza, la finanza e la privacy come la intendiamo oggi. I lavori manuali ripetitivi e a basso valore aggiunto saranno assorbiti dalle macchine. I cosiddetti Neet (non scolarizzati 30%), avranno il diritto di consumare, non di produrre. Non faremo la fine dei cavalli (forse), ma il lavoro, come il tempo libero, cambierà radicalmente. Il compito della politica è di creare le condizioni del cambiamento. Alla politica invece si chiede quello che non può fare e cioè creare ricchezza. Bisogna concentrarsi sui motori veri dello sviluppo. Sono le imprese che producono ricchezza. La politica non può distribuire ciò che non si produce, spostando il peso del debito sulle generazioni future. Le statistiche dimostrano che l’occupazione è più alta dove i livelli di innovazione sono più elevati. Un uomo chiave di una grande multinazionale del software mi ha detto che le abilità valgono più delle credenziali accademiche. Nell’ambiente di Google si parla di “scoiattoli viola”: un paradigma di animali rarissimi che si applica al tipo di ingegneri eccellenti e moderni ai quali il lavoro non manca. Sono specialisti in cybersecurity, robotica, tecnologia dell’informazione, software, app mobili, griglie smart, cloud, big data. Non è solo questione di investimenti, ma di cultura media. Gli imprenditori hanno ragione di chiedere flessibilità e semplificazione, ma devono essere i primi a credere nell’innovazione, raddoppiando gli investimenti in ricerca e sviluppo, e assumendo giovani talenti in grado di esprimere la loro creatività. Devono creare reti di collaborazione con industrie grandi e piccole, italiane e straniere. Lavoro e prosperità si creano studiando e inventando.

Un nuovo patto per lo sviluppo

Ultimi in ordine di tempo i dati che arrivano dall’edizione 2016 del Global Information Technology Report del World Economic Forum (WEF), e che mettono l’Italia al 45esimo posto (su 139 paesi). Un’accelerazione di 10 posizioni, che le vale la qualifica di “top mover” – secondo gli esperti – più per il miglioramento della percezione che per il reale progresso sugli indicatori oggettivi.

Leggi anche:  Codice ESG, la sfida dell’IT sostenibile

Del resto, quando si possono trovare le stesse risorse, la stessa tecnologia, gli stessi prodotti e servizi a Berlino e a Singapore, a New York e a New Delhi – allora – è il momento di chiedersi che cosa ci rende davvero speciali e diversi dagli altri. Su cosa si basa il vantaggio competitivo delle nostre organizzazioni? R-innovare significa essere il cambiamento, reinventando regole e ricette. Per essere competitivi non basta lavorare di più e più velocemente se si fanno gli stessi errori al doppio della velocità. Le nuove parole del business e della tecnologia sono collaborazione, cultura, sinergia. Nulla costa caro più della rigidità. Non possiamo solo copiare il modello della Silicon Valley tra le cascine del Parco agricolo a sud Milano. Perché significherebbe costruire il futuro guardando al passato. La Silicon Valley fino a ieri è stata inimitabile. In molti hanno cercato di copiarla senza riuscirci. Oggi, quel modello di creatività e persino di “trasgressione” è diventato qualcos’altro, perché si diventa ricchi tramite la quotazione in Borsa, non più con le invenzioni. Ecco perché dobbiamo essere in grado di pensare a qualcosa di completamente nuovo, riscoprendo e reinventando la grande lezione del paradigma olivettiano di una possibile nuova alleanza per lo sviluppo sostenibile tra società e imprese.


giovanniniSviluppo sostenibile

Unica via per la crescita

I fattori dell’innovazione le incognite della crescita. Grazie all’ICT si possono utilizzare meglio le risorse, ridurre i consumi e far lavorare meglio le persone. Ma «le barriere alla circolazione dei dati in Europa sono inutili e dannose come i muri alle frontiere»

Parlando di nuovi modelli di sviluppo, è la sostenibilità, come stabilito dall’Agenda 2030 dell’ONU, l’unica strada possibile per lo sviluppo. «Una sostenibilità non solo ambientale, ma sociale per stimolare la crescita globale » – così spiega Enrico Giovannini, presidente dell’Istat dal 2009 al 2013 e attualmente portavoce dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile. «Se abbiamo accettato di non voler produrre solo PIL, dobbiamo promuovere istruzione e benessere. Il modello di un’economia lineare è obsoleto. Non possiamo continuare così, ma dobbiamo tenere insieme l’ecosistema ambientale e umano. Non c’è un prima e un dopo: tutto è collegato. L’indice di felicità lorda attuato nel Bhutan può essere un modello anche per noi perché l’economia ha scoperto che se le persone sono felici la produttività migliora. Le migrazioni e i cambiamenti climatici sono fenomeni collegati tra loro, questa è una nuova concezione del problema. È una sfida di grande portata, ma dobbiamo affrontarla, perché l’alternativa è la crisi».

Data revolution

«Nel rapporto per il segretario generale delle Nazioni Unite, abbiamo fatto presente che senza un intervento forte si rischia di avere un aumento delle disuguaglianze e dei divari tra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo, tra settore pubblico e privato, tra chi sa come usare i dati e chi non sa come farlo. Ci sono problemi tecnologici, ma anche di mindset, cioè di approccio nel comprendere che i dati sono un asset straordinario». Che cosa significa? «Significa che in primo luogo dobbiamo decidere quale futuro vogliamo realizzare. Vuole dire che la tecnologia è un elemento fondamentale per fare questo, vuol dire però coinvolgimento dei cittadini, vuole dire educazione e vuole dire politiche capaci di tradurre la complessità e di governarla. Le barriere alla circolazione dei dati in Europa sono inutili e dannose come i muri alle frontiere. Ma se i dati sono un asset strategico, l’Italia non li sta gestendo in questo modo».

I fattori di successo

«L’Italia ha attraversato questi 40 anni con straordinari cambiamenti, ma anche perdendo gradualmente terreno. Ricordo quando nel ’99 il Presidente Ciampi doveva fare il suo primo discorso da Presidente della Repubblica e mi chiese tutta una serie di dati di fine del secolo. L’Italia si è collocata sempre sesta, settima, ottava. Negli ultimi dieci anni, è cresciuta mediamente meno degli altri paesi. Perché sottolineo mediamente? Perché anche in questo periodo ci sono state imprese, e non sono poche, che grazie all’innovazione sono riuscite a guadagnare posizioni e a riprendersi dalla crisi del 2009, anche rapidamente. La questione è che abbiamo un paese molto polarizzato, non più neanche dualistico. I fattori di successo sono sempre gli stessi. L’innovazione tecnologica, ma soprattutto investimento in capitale umano, capacità organizzativa e di domandarsi continuamente come possiamo cambiare per essere non solo più efficienti ma generare nuovi prodotti, nuove idee, aggredire nuovi mercati e così via. L’età conta molto, a parità di altre condizioni vediamo che le piccolissime imprese gestite da giovani sono più aggressive ma anche più di successo. La qualità del management è fondamentale. Essere imprese di successo vuol dire anche capire i nuovi bisogni perché le persone si stanno spostando verso prodotti e servizi non solo più sostenibili sul piano ambientale, ma sostenibili anche sul piano sociale».

Leggi anche:  Lavoro flessibile, il connubio vincente tra ibrido e smart

L’Italia sta veramente mettendo i suoi soldi sulle cose che contano?

«Non lo so. Noi abbiamo speso dieci miliardi all’anno da qui all’eternità per i famosi 80 euro. E sa che cosa si può fare con dieci miliardi all’anno, tutti gli anni? Lei può trasformare le nostre università in MIT, avendo la fila dei migliori esperti che vengono in Italia. Lei può fare innovazione obbligando le imprese a lavorare con le università, creando quelle sinergie che oggi non ci sono, e dando un’accelerazione che oggi manca. E invece che cosa abbiamo deciso? Di finanziare i consumi nella speranza che i consumi tirino l’economia, sapendo come ci ha detto l’Istat, che la penetrazione sul mercato interno delle importazioni cresce. Se noi consumiamo invece di investire sul futuro, non stupiamoci che poi quando saremo nel futuro, ci accorgeremo di avere sprecato le nostre risorse».


mastronardiNon avrai altro DIO al di fuori di me

Università e imprese. Ma chi premia il talento? Nuove sinergie per rimuovere la frattura tra mondo accademico e mondo produttivo. L’evoluzione del ruolo del CIO e l’idea di un grande Politecnico nazionale per unire le forze ed eliminare il gap di sviluppo tra Nord e Sud

«Siamo un Paese che forma eccellenze, ma non sa premiare il talento». Parola di Giuseppe Mastronardi, professore ordinario di Sistemi di Elaborazione delle Informazioni del Politecnico di Bari e presidente di AICA, l’Associazione Italiana per l’Informatica e il Calcolo Automatico. «Le università hanno il compito importante di formare i giovani per ottenere i migliori risultati sia sul piano della formazione di base sia sul piano di quella specialistica rivolta al mondo del lavoro. Dobbiamo avere fiducia in questi giovani perché è su di loro soltanto che si può veramente contare per una ripresa e una rinascita del nostro Paese. Noi non siamo esenti dall’assumerci le nostre colpe. Bisogna dare ai giovani lo spazio per proporre la loro visione del mondo, dando le competenze ma lasciandoli liberi di creare e sperimentare. I giovani sanno bene di vivere in un mondo globalizzato, ma sanno accettarne – più di noi – i rischi e le opportunità».

Innovazione e sapere

Le università con i laboratori, i fab lab, gli incubatori di impresa, gli acceleratori per il trasferimento tecnologico stanno costruendo nuove sinergie per rimuovere la frattura tra mondo accademico e mondo produttivo e per promuovere nuove attività imprenditoriali a carattere innovativo basate su un background di ricerca sviluppato in ambito accademico. Come spiega Mastronardi, l’università deve muoversi in modo positivo, creare occasioni di confronto e dialogo, eliminando i compartimenti stagni e invitando i giovani ad avere fiducia nel progresso e nella sua stretta relazione con l’avanzamento della conoscenza. «C’è da dire che nell’ambito delle università abbiamo avuto molte riforme che guardavano più alle carriere che ai contenuti. Nonostante tutto, le riforme non hanno destabilizzato il sistema universitario e abbiamo resistito. Diciamo che siamo stati “forti” anche noi, nel mantenere in piedi il sapere indipendentemente dalla cornice che ci volevano mettere. Oggi, i progetti di alternanza tra scuola e lavoro danno ai docenti la possibilità di essere in collegamento con il mondo dell’imprese, che hanno fame di competenze ma non le trovano».

Come guidare il cambiamento

Nei percorsi di formazione ci sono ritardi e incertezze. «Non è un caso che si chiudono alcuni corsi di laurea e se ne aprano altri. Esistono molti problemi di finanziamento, di programmazione e sostegno costante della ricerca, di organizzazione, di selezione degli obiettivi e di misurazione dei risultati, di offerta formativa, ma anche di indipendenza e di stimolo alla ricerca. Nei primi anni Duemila, portavo nelle scuole una conferenza adatta agli studenti delle scuole medie dal titolo “Per Internet, con Internet, in Internet”, correndo il rischio di essere un po’ blasfemo e mischiando sacro e profano. In principio, c’era il verbo della programmazione. Ma alla figura di un CIO sacerdotale, troppo legato al suo dipartimento IT e alla liturgia funzionale, preferisco quella di un DIO, nel senso di digital innovation officer, in grado di fare da collegamento tra le diverse line of business, padroneggiando linguaggi e competenze multisettoriali e guidando la trasformazione digitale dall’interno. E in AICA stiamo allenando i CIO a diventare DIO per creare innovazione e guidare il cambiamento».

La lista delle priorità

Occorre soprattutto la capacità di valorizzare le idee, incentivando nel modo giusto chi lo merita. «Le riconosciute eccellenze, che una volta portavano ricchezza al Nord e all’estero, oggi sono in grado di attrarre capitali lì dove si consolidano. L’attuale globalità consente ai nostri giovani di esprimere al meglio la loro creatività, lavorando ovunque lo ritengano più produttivo, con minor costo e maggior profitto. Nonostante l’aumento delle imprese innovative, Nord e Sud continuano a viaggiare a due velocità diverse. Un grande “Politecnico nazionale” potrebbe essere lo strumento per realizzare una lista delle priorità in grado di eliminare questo divario aiutando tutto il Paese ad andare incontro al futuro».


stancaL’Italia vista da fuori e da dentro

Mancanza di una strategia condivisa tra pubblico e privato. Carenza di una forte governance istituzionale in grado di definire le priorità. E assenza di una continuità progettuale e di azione da un governo all’altro. Sono queste le tre cause principali della crescita lenta

La prospettiva dal “di fuori” di Lucio Stanca è quella degli oltre trent’anni in cui ha lavorato all’estero e in Italia per IBM. La prospettiva dal “di dentro” è quella maturata nel cuore della vita politica e istituzionale del Paese, come ministro dell’Innovazione e parlamentare. «Le cose da fare le sappiamo, da almeno trent’anni, a cominciare dalla riduzione della spesa pubblica improduttiva» – spiega Lucio Stanca, che attualmente ricopre l’incarico di vicepresidente dell’Aspen Institute in Italia. «Nel frattempo, abbiamo accumulato ritardi rispetto ai nostri concorrenti e abbiamo perso dieci anni sul digital divide. Nella classifica della Commissione Europea, siamo al 25esimo posto fra i 28 paesi dell’Unione. Dietro di noi Grecia, Bulgaria e Romania. E rispetto al 2014 abbiamo perso una posizione».

Leggi anche:  La rivoluzione digitale della banca esperienziale

Innovazione e governance

Per chi è a capo di grandi organizzazioni, ci sono sempre scelte difficili da prendere. «Quando agli inizi degli anni Novanta – racconta Lucio Stanca – IBM entrò in crisi perché non aveva pienamente compreso la portata del cambiamento che stava avvenendo nel mercato dei personal computer, cambiamento generato dalla stessa capacità di innovazione di IBM, ci fu la necessità di ristrutturare la compagnia. Anche il Paese ha sottovalutato e non ha compreso la portata del cambiamento, ritardando decisioni e investimenti». Per l’ex ministro, la creazione di una moderna infrastruttura digitale va troppo a rilento. «La spending review non si riesce a fare, ma si cambiano i commissari ai quali si nega l’accesso alle informazioni. La tecnologia cambia, cambiano i governi, e ogni nuovo governo cambia la rotta. È da più di dieci anni che milioni di italiani aspettano di avere la Carta d’identità elettronica nelle loro tasche».

Perché la politica ha fallito?

Il declino ha radici profonde non solo economiche. «E se continuiamo a non avere un progetto per il futuro, saremo condannati a una decadenza inesorabile» – avverte Lucio Stanca. «Siamo un Paese molto diviso, ancora alla ricerca della sua identità e della capacità di stare insieme. C’è una forza di conservazione che sta nella politica, negli apparati della pubblica amministrazione, ma che è il riflesso di quella che sta nel Paese reale. Anche i sindacati hanno esercitato un ruolo di grande conservazione, alimentando la divisione tra capitale e lavoro e impedendo l’affermarsi di un nuovo modo di concepire le relazioni tra imprese e lavoratori. La politica ha una grande responsabilità, ma non assolviamo tutti gli altri».

Piccole e grandi rivoluzioni

Il rispetto delle regole chiama in causa la responsabilità delle scelte di ciascuno di noi. «C’è la grande criminalità organizzata con i grandi traffici illegali e c’è l’emorragia dell’evasione fiscale. Ma l’illegalità diffusa si accompagna a una sovrapproduzione di regole che è inaccettabile. Poi c’è la lentezza della giustizia civile, della burocrazia e di tutte quelle barriere invisibili che rendono difficile investire in Italia» – continua Lucio Stanca. «Rispetto ai paesi più avanzati, abbiamo un labirinto di regole. Questa incertezza si trasforma in discrezionalità che a sua volta genera corruzione e produce sfiducia anche in chi vorrebbe investire e fare impresa in Italia. Aumenta il divario tra Nord e Sud e l’innovazione tecnologica non riesce a colmare questo gap. La meritocrazia per intere generazioni è rimasta una parola. L’uguaglianza deve essere nei punti di partenza non in quelli di arrivo. Nella PA, il merito non è un obiettivo e neppure una pratica. Così come nella scuola e nelle università, dove si misura il merito degli studenti, ma non quello della classe docente. Il principio di anzianità è un’ingiustizia profonda. In una società moderna, il merito dovrebbe essere il metro con cui misurare la classe dirigente».


vaccaNon solo digital

Il divario, in Italia è culturale

Siamo più poveri perché siamo più ignoranti. Nei paesi più ricchi, i privati investono in R&D il doppio del pubblico. Nei paesi più poveri stanno allo stesso livello. In Italia, questo divario dura da più di 30 anni. Non è solo questione di investimenti, ma di cultura

Ha troppi interessi e non ha il tempo di invecchiare. Stiamo parlando di Roberto Vacca, 89 anni compiuti da poco, ingegnere, ricercatore, divulgatore scientifico, tra i primi in Italia a occuparsi di automazione del calcolo e sistemi esperti. Cultura politecnica, timbro di voce alla Gassman, ironia alla Flaiano, più “fico” di Sean Connery e quel guizzo laterale che fa la differenza. In lui, l’uomo di scienza fa pace con l’umanista. Intellettuale poliedrico, per certi versi rinascimentale, ma con lo sguardo ben attento ai temi della contemporaneità. Lavoro, digital divide, conoscenza, crescita, innovazione e futuro. Nel suo ultimo libro, Come fermare il tempo (2016, Mondadori), descrive la riscossa dei “vecchi saggi” e ci mette in guardia da rischi e inganni. Più che un manuale di resistenza umana, il libro è un vero e proprio manifesto. E quella di Roberto Vacca è una mano tesa a tutti, top manager e giovani startupper, nonni pigri e direttori generali in pensione, CIO e venture capitalist.

Non ci sono scorciatoie

«Molte decisioni che ci riguardano sono sbagliate» – spiega Roberto Vacca. «Le prende chi ha potere su di noi. Girano miliardi di parole, disseminate da giornali, radio, TV, internet, social. Sono improvvisate, talora insensate. Non c’è una mano invisibile che sprona scienziati, tecnologi e imprenditori. Bisogna lavorare, studiare e impegnarsi molto. L’analisi dei sistemi nessuno sa più che cosa sia. La logica non è più insegnata in Italia dai tempi della riforma Gentile. Per fortuna è arrivata l’algebra booleana, che almeno chi si occupa di computer, un po’ di logica la sa. Le leggi che si scrivono in Parlamento e le iniziative che prende un governo sono attività essenzialmente culturali. Se la cultura è bassa non c’è un’opinione pubblica in grado di comprendere o appoggiare iniziative nuove. L’innovazione all’origine parte dal sapere e dal voler sapere e dal migliorarsi continuamente. In giapponese KAI ZEN, significa “correggere”, “migliorare”, “rendere giusto”. Un concetto che la politica non vuole prendere neppure in considerazione».

Ricerca e sviluppo

I paesi più avanzati si distinguono nettamente dagli altri perché le aziende private investono in ricerca e sviluppo il doppio di quanto investe il pubblico. «In Italia, non c’è molta differenza e si vedono le conseguenze» – spiega Roberto Vacca. «Siamo più poveri e più ignoranti e dovremmo smettere subito di far finta di niente e investire in cultura. Ciascuno di noi dovrebbe rendersi conto che saperne di più è l’unica strada per la salvezza. La Commissione europea pubblica ogni anno l’Innovation Scoreboard. L’Italia per molti decenni è stata al 15esimo posto su 28. Poi siamo scivolati al 16esimo posto, superati anche dalla Repubblica Ceca. Se guardiamo bene, i numeri sono abbastanza tristi. Uno dei fattori importanti per l’innovazione sono la ricerca e lo sviluppo e in Italia la ricerca pubblica investe poco meno della metà del’1% del PIL. I privati stanno molto peggio, poco sopra la metà della media europea. Non solo. La percentuale della popolazione che ha completato l’educazione terziaria in Italia è il 22,4%, il livello più basso nell’Europa dei 28».

Competizione o estinzione?

Per Roberto Vacca, il fatto che le aziende italiane investano in ricerca e sviluppo meno della metà della media europea è una cosa vergognosa. «Ma abbiamo sentito qualche politico importante che abbia parlato di questo? Forse, bisognerebbe dare degli incentivi alle aziende. Ma l’incentivo più forte dovrebbe essere la differenza che c’è tra competizione ed estinzione». La tecnologia dell’informazione e della comunicazione potrebbe essere uno strumento potente in grado di diffondere cultura e di creare una società avanzata e matura. «L’ICT è la risposta a moltissimi problemi, se adoperata bene e diffusa meglio, ma il fatto che nelle scuole non si insegni per niente è ridicolo. I linguaggi di programmazione si dovrebbero insegnare fin dalle elementari come l’ABC. Funziona sempre. I ragazzini imparano subito perché la programmazione è ragionevole e razionale, oltre che divertente. Di queste cose concrete bisognerebbe discutere. Invece non se ne parla».