Microprocessore, macrorivoluzione


Quaranta anni dall’invenzione Intel che ha cambiato il mondo. Allo Smau di Milano Federico Faggin ricorda i duri mesi di lavoro che portarono alla realizzazione del 4004, la prima Cpu programmabile della storia. Oggi il suo sguardo di innovatore si sposta sui misteri della consapevolezza e sui computer cognitivi, con la speranza che l’Italia abbia le sue Silicon Valley

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Forse le cose sarebbero andate in quel modo comunque, ma il quarto di secolo intercorso tra l’invenzione del transistor da parte di Bardeen, Brattain e Shockely e i primi “microprocessori” dimostra che l’impresa – passare da un concetto di calcolatore basato su componenti allo stato solido discreti a una macchina programmabile costruita intorno a un rettangolino di materiale ceramico con dentro una scheggia di semiconduttore che da sola valeva un paio di migliaia di transistor – non era alla portata di tutti. Ci volevano degli ingegneri bravi e visionari. Ma soprattutto coraggiosi, considerando che il transistor, alla fine degli anni 40 era nato in un laboratorio di ricerca pura, mentre il primo microprocessore, annunciato nel 1971, era destinato a un progetto commerciale commissionato a Intel da un cliente giapponese.

 Il primo che aveva ritenuto possibile concentrare tutte le funzioni di calcolo di un set di circuiti integrati in un’unica “unità centrale” fu, insieme a Stanley Mazor, un ingegnere di Intel chiamato Ted Hoff. Ma l’esecutore materiale di quel progetto era un giovane fisico vicentino che, dopo aver lavorato per Olivetti, era entrato, ancora giovane, nella compartecipata italiana di Fairchild (joint venture tra il primo colosso americano dei semiconduttori e la nostra SGS), emigrando successivamente a Palo Alto per andare a lavorare nella casa madre. Quel fisico si chiamava Federico Faggin e l’anno scorso il presidente Obama gli ha conferito la medaglia per la Tecnologia e l’Innovazione, il massimo attestato di riconoscimento per un inventore americano. Faggin è diventato un cittadino statunitense, ma è rimasto molto attaccato alle sue radici venete ed è regolarmente in Italia. Anche se ha lasciato Intel pochi anni dopo l’exploit di quel rivoluzionario dispositivo, il “4004”, per fondare Zilog e diverse altre aziende, Faggin ha accolto l’invito dell’azienda di Santa Clara per celebrare il quarantesimo anniversario del microprocessore in occasione di Smau 2011. Senza il lavoro di Faggin, senza tutte quelle notti perse a testare il suo seminale progetto, non ci sarebbero state le trasformazioni della microinformatica.

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Nel 1969… – «Nel 1969 – racconta oggi il padre materiale del microprocessore – un cliente giapponese di Intel, Busicom, aveva commissionato una serie di circuiti integrati “customizzati” per realizzare una nuova famiglia di calcolatrici da tavolo. In origine tre di questi chip avrebbero dovuto fare da unità centrale, più un quarto destinato alla memoria di tipo seriale, perché allora la Ram non esisteva. Intel in quel momento stava progettando le sue prime memorie dinamiche e Hoff ebbe l’intuizione di proporre al cliente un approccio diverso, con una Cpu più snella e realizzabile – forse – in un unico chip. Dico forse perché nessuno allora sapeva come mettere in pratica quell’idea». Faggin viene assunto in Intel proprio con quell’obiettivo: nei due anni precedenti, mentre era ancora in Fairchild, il suo lavoro si era concentrato su un tipo di materiale, silicio con ossido di metallo, che sarebbe stato il punto di inizio della tecnologia Cmos.

«Fu proprio quella tecnologia, i “gate” di silicio, a rendere possibile il 4004, racconta ancora Faggin. Ci vollero nove mesi per partorire i primi prototipi e ricordo ancora molto bene il giorno in cui mi arrivarono le prime fette di silicio. Le misi nei tester e lavorai tutta la notte, da solo, in laboratorio. Verso le quattro del mattino l’ansia iniziale cominciava a trasformarsi in eccitazione e quando tornai a casa all’alba gridai a mia moglie, che ancora mi aspettava, “funziona!” Era una mattina di gennaio del 1971».

 

Avrebbe cambiato il mondo – A distanza di quarant’anni Faggin ammette di aver sempre saputo che il microprocessore avrebbe avuto un enorme impatto sull’industria, avrebbe letteralmente cambiato il mondo. «Ma non mi sarei mai sognato fenomeni come Internet o il telefono cellulare, il mondo è cambiato in una misura che va al di là di ogni mia immaginazione. Mi resi subito conto che una delle prime applicazioni poteva essere un computer sistemato sul tavolo di lavoro di un ingegnere, ma l’impatto sociale del computer su ogni scrivania era del tutto imprevedibile». Ripensando al ruolo che ebbe il motore elettrico nella storia della rivoluzione industriale, Faggin paragona il microprocessore a quell’idea, ma osserva giustamente che il motore aveva amplificato la forza delle nostre braccia. «Ma il microprocessore, il software, amplificano quella della nostra mente, che è incomparabilmente più forte».

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Il futuro – Come si immagina oggi il futuro questo visionario dall’aspetto gentile, capace di nascondere l’audacia delle sue idee e la sua determinazione di imprenditore tecnologico di successo dietro i modi di un tranquillo professore di liceo? «Penso a due tipologie di computer. Le macchine di oggi potrebbero essere definite degli idiot savants, dei semplici esecutori. L’apparente intelligenza dei computer è solo un’intelligenza umana resa incredibilmente più veloce. La tecnologia che potrebbe fare davvero concorrenza all’uomo è quella del computer cognitivo, una macchina capace di imparare da sola, di autocorreggersi. Ma ancora non sappiamo come fare, ritengo che attraverso una migliore comprensione del funzionamento del cervello riusciremo a produrre computer più intelligenti. L’altra tendenza riguarda il computer quantico, i cui “qbit” non operano più in logica binaria, ma, secondo le teorie della meccanica quantistica, valgono allo stesso tempo uno e zero. La nostra mente scoppia nel pensare a cose del genere, ma penso che tra quindici o vent’anni arriveremo ai computer quantici e cognitivi».

 

Le origini della coscienza – L’impegno di Faggin sul nuovo fronte dell’informatica semantica e cognitiva non si esaurisce con le profezie. Oggi il fisico italiano (e americano) si dedica alle ricerche finalizzate a risalire alle origini della coscienza. «Tre anni fa ho smesso di occuparmi di business, ho ceduto la mia ultima azienda e sono uscito da diversi board per concentrarmi sulla mia nuova fondazione per lo studio della consapevolezza, la nostra capacità di registrare un’esperienza. In passato la questione è stata sottovalutata sul piano scientifico, quello che pensiamo è che la consapevolezza di sé sia solo un epifenomeno del funzionamento complessivo del cervello, ma secondo me è parte integrante della natura. Siamo una macchina, ma siamo anche molto più di una macchina».

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Alla fine delle celebrazioni per il primo microprocessore, Faggin lascia ancora una volta la sua Vicenza, fulcro del distretto della meccatronica e torna in Silicon Valley. Che cosa condividono le due aree? «Lo spirito imprenditoriale, la capacità di creare una cosa dal nulla e l’industriosità della gente sono tre fattori comuni. Mi auguro che col tempo emergano in Italia elementi come i capitali di ventura, un mercato di Ipo che renda possibile un vero ciclo di investimento, un sistema di leggi che snelliscano le procedure per le piccole aziende». Aggiungendo questi elementi, conclude Faggin, la Silicon Valley non sarebbe poi così lontana.