Smart working, il futuro è sostenibile?

Smart working, il futuro è sostenibile?

Italiani divisi su piattaforme digitali e sostenibilità. Grandi città ottimiste, piccoli centri più cauti. Ecco i risultati della nuova ricerca della Fondazione per la Sostenibilità Digitale. Il futuro del lavoro è ibrido

Cosa pensano gli italiani di smart working, piattaforme digitali e, più in generale, del futuro del lavoro, e degli impatti che tutto ciò può avere sulla sostenibilità? È questa la domanda dalla quale prende le mosse la nuova ricerca “Smart Working: la sfida del digitale” realizzata dalla Fondazione per la Sostenibilità Digitale, partendo del percorso di ricerca basato sul suo indice DiSI e che, quest’anno, mostra anche le differenze esistenti nelle percezioni dei residenti dei grandi e dei piccoli centri del nostro Paese.

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La rilevazione mostra come, in generale, siano gli abitanti dei grandi centri a essere più convinti dei benefici dello smart working. Non tanto in termini di aumento di produttività – ampiamente riconosciuta sia nei contesti più piccoli (75%) che in quelli più grandi (74%) – quanto soprattutto rispetto ad altri temi più direttamente collegati alla sostenibilità. In particolare, mentre a ritenere che il lavoro a distanza favorisca la parità di genere è il 21% di coloro che abitano nei grandi centri, questa percentuale scende al 13% nei centri più piccoli. Allo stesso modo, sebbene con un minore scarto, è il 79% degli intervistati residenti nei grandi centri urbani a essere convinto che il lavoro a distanza migliori l’equilibrio tra tempo di vita e tempo di lavoro (work-life balance), contro il 74% rilevato nei piccoli centri.

Ma non solo: a sostenere che il lavoro a distanza, riducendo gli spostamenti, rappresenti un vantaggio per l’ambiente sono rispettivamente l’81% e il 76% di coloro che risiedono nei grandi e nei piccoli centri del territorio. E non sembra essere un caso, in questa direzione, che a concordare in misura maggiore con l’affermazione proposta siano soprattutto gli utenti più digitalizzati e attenti alla sostenibilità.

La distanza esistente nelle opinioni dei cittadini nei diversi contesti sembra trovare un riscontro anche nei risultati relativi ai livelli di utilizzo di quegli strumenti digitali utili nell’adozione dello smart working. Per esempio, se nei grandi centri è il 31% dei cittadini a dichiarare di non conoscere quegli strumenti di collaborazione che facilitano l’organizzazione delle attività per i team di lavoro, questa percentuale sale al 45% nei piccoli centri. Inoltre, se nei grandi centri urbani circa un intervistato su tre (31%) afferma di utilizzare regolarmente servizi come le piattaforme per videoconferenze, il rapporto scende a uno su dieci (10%) nei piccoli centri: e, considerando che a non conoscere questo tipo di servizi nelle aree più piccole è il 32% degli intervistati contro il 14% rilevato nei grandi agglomerati urbani, ciò che si evidenzia è la presenza di un vero e proprio gap tecnologico tra le diverse tipologie di contesto.

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Al netto di questi risultati, ciò che emerge dalla ricerca è che, per la maggior parte dei cittadini intervistati, il futuro del lavoro dovrà essere un mix tra lavoro a distanza e lavoro in presenza. Una sorta di lavoro “ibrido” che, in questa direzione, potrebbe dunque rappresentare una giusta soluzione per bilanciare i potenziali benefici e svantaggi delle nuove modalità lavorative. «Flessibilità, autonomia, responsabilizzazione e orientamento ai risultati sono la filosofia che sottende allo smart working. Una vera rivoluzione culturale che scardina consuetudini e approcci tradizionali fornendo ai lavoratori flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare, a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati» – spiega Stefano Epifani, presidente della Fondazione per la Sostenibilità Digitale. «In questo nuovo contesto, la tecnologia gioca un ruolo estremamente importante. Smart working e digital transformation si abilitano a vicenda, tuttavia, la tecnologia e lo smart working non devono diventare strumenti di potenziale ghettizzazione, ma risorse per il lavoratore e per l’azienda».

A cura di Fondazione per la Sostenibilità Digitale